ATTO V, SCENA i
ELIONORA mogli di CALLIFRONE

Sono tanti i pericolo del mondo, che nò si possono dir passati i travagli del giorno, se non dopo giunta la sera; ne i pericolo della vita, se non dopo la morte. Sono venuta da Barcelona infino a Napoli senza passar pericolo alcuno, anzi senza veder mai faccia ti tempesta; or giunta quasi al porto, mancò poco, che non mi morissi della paura di sommergermi: ed all’ora più s’accrebbe la paura a tutti, quando vedemmo una nave appresso noi miseramente sdrucita dalla furia dell’ onde, inghiottita dal mare, e diede al suo naufragio miserabil spettacolo a gli occhi nostri. Pure per la Dio grazia sono giunta alla patria, e sono finiti i pericolo del mare. Ma come farò, per aver nuova di Callifrone mo marito? Ancorchè l’incontrassi, no lo conoscerei, che son quindeci anni, che non ci siam veduti: e l’andar cercando un’uomo per Napoli mi par vanitade. Mi scrisse, che abitava alla strada Toledo, vicino alla Carità, ed io sono già in quella. Andrò a trovar un’allogiamento per riposarmi, e fare sbarcar mio figlio, e mia nuoro: e poi domani andrò cercando. Seguimi, Dusa.

ATTO V, SCENA ii
CALLIFRONE, ELIONORA, e TRAPPOLA

CAL. Veggio una matrona, e mi par forestiera, che viene in quà, e mi par altre volte d’averla veduta, ne posso ricordarmi dove.
ELI. Veggio un vecchio, che mi sta mirando, e non mi muove gli occhi da dosso, parmi averlo veduto, e conoscerlo.
TRA. Il mio padrone sta mirando una vecchia con tanta attenzione, come se volesse far l’amore.
CAL. E quanto più miro, più m’assicuro di averla vista, e trattatto con lei.
ELI. E quanto più lo miro, più mi pare d’aver avuto commercio seco.
CAL. Se non dubitassi, che il desiderio di vederla m’ingannasse, direi ch’è Elionora mia moglie, la quale lasciai in Barcelona.
ELI. E se non dubitassi, che il soverchio difio, che n’ho, mi facesse parer’ uno per un’altro, direi, che fosse Callifrone mio marito.
CAL. Mi par troppo vecchia: non è mia moglie, no.
ELI. Mi par troppo ricaduto di età, troppo vecchio.
CAL. Non è dessa, certo no.
ELI. No, no, non è desso, no.
CAL. Se non fosse, che mi tiene il rispetto di dimandare una donna, vorrei dimandarle, chi fosse.
ELI. Se la donnesca onestà non m’impedisse, vorrei dimandargli, chi fosse.
CAL. Ella è certissimo: non mi posso tener di non dimandarla.
ELI. Certo è desso, e bisogna glie lo dimandi.
CAL. Ma vò dimandarla di modo, che non essendo, chi stimo, possa ritrarmi con l’onor mio.
ELI. Ma come lo dimanderò, che facendo errore, resti con l’onor mio? Poichè mi state mirando, mi è forza voltarmi a voi, e dimandarvi, se conoscereste quì in Napoli per sorte Callifrone Affaitato.
CAL. Non potevate abbatervi meglio, che a me: ch’io son de’ maggiori amici, ch’egli abbia. Ma ditemi voi di grazia, se sete forestiera? E se forestiera, donde venite?
ELI. Io son de questa città, e son forestiera, e vengo di Barcelona.
CAL. Io mi sento un’occulto spirito, che mi toglie i velo da gli occhi, e mi fa veramente conoscere, ch’ella è mia moglie.
ELI. Io sento non so che affetto intenso, che mi riempie d’occulta dollezza, che non posso capir me stessa. Certo costui sarà mio marito.
CAL. Chi facilmente impetra, si fa più audace nel chiedere. Poichè con tanta cortessa mi avete risposto al primo, respondete a quest’altro. Conoscereste in Barcelona una donna chiamata Elionora?
ELI. Non potevate abbattervi meglio, che a me, ch’io gli sono molto amica. Ma ditemi di grazia, dove abita Callifrone?
CAL. Abita quì, dove son’io; ed io son quel Callifrone, che cercate.
ELI. Ed io vi dò ancor nuova, che Elionora si trova quì, dove son’io.
CAL. Non debbo più dunque trattenermi a correre, e porvi le braccia al collo.
ELI. Ne io posso star più con le mani a cintola.
TRA. Io dubito, oimè è pur vero, che questa ò la moglie di Callifrone, che giugne da Barcelona con Lelio suo figliuolo, e Donna Eufragia sua moglie.
CAL. O cara moglie, per mille volte ben venuta.
ELI. O carito marito, ben trovato per migliaja di volte.
CAL. Quanto è, che sete giunta in Napoli?
ELI. Or’ ora la nave è entrata in porto, ed or siamo sbarcati.
CAL. Come così sola?
ELI. Ho lasciato Lelio nostro figlio con Donna Eufragia sua moglie, che si giacciono un poco maltrattati del mare, ed io con questa donna me ne veniva pian piano dimandando di voi, e torr’uno alloggiamento.
TRA. Io credo, anzi vedo, e volesse Iddio, che non vedessi più mai quel’ che vedo, che questa è sua moglie
CAL. Di Donna Elvira non avesti più nuova giammai?
ELI. Dopo che mi su tolta da’ Mori, e condotta all servigio della reina di Fessa, fu riscattata da un mercatante Cristiano, per rivenderla, non n’ho più inteso nuova veridiera.
CAL. Ma come Lelio, e Donna Eufragia sono in nave, se da questa mattina son venuti in casa mia?
TRA. O Diavolo, a che punto ai condotta questa vecchia traditora, per farmi andar così presto all’Isoletta di legno!
ELI. Come può esser giunto questa mattina, se or’ora gli ho lasciati in nave? Potrebbono venir da se, tanto stanno di cattiva maniera? Mi bisogna mandarli un cocchio.
CAL. Io vi dico, che son’in casa mia, e li potrete veder or’ora. Olà, o di casa, fate calar quì la signora Donna Eufragia.
ELI. Or questa saria bella, ch’abbi voluto venir quà prima di me: ma di grazia veggiamola.
CAL. Olà, o di casa, dite alla signora Donna Eufragia, ed a Lelio, che calino quaggiù, perch’è venuta de lor madre.
ELI. Sarebbe davero ciò un miracolo.
TRA. Il fatto è spacciato per merè venuta questa vecchia, per farci tutti miseri: non poteva rompersi il collo per la via? S’incappo in mano del vecchio, avendogli di più oggi fatto tante burle, oltre il cattivo credito, in che mi tiene, pigli a Trappola, bastona Trappola, in galera Trappola, appicca Trappola, squarta Trappola, mi farà far mille morte per ora. Che fo, che non comperò una fune, e m’appiccio? Già sento il rimbombo delle bastonate su la schiena, ciach, ciach.

ATTO V, SCENA iii
FILESIA, CALLIFRONE, ELINORA, e TRAPPOLA

FIL. Padre mo, que me pedis?
CAL. Rallegrati figliuola mia, ecco Elionora tua madrigna, che viene ad abbracciarti; e tu moglie mia cara, ecco Donna Eufragia tua figliastra.
ELI. Dove è Donna Eufragia?
CAL. L’al dinanzi, e non dimandi?
ELI. Costei non è Donna Eufragia mia, mia figliastra.
FIL. Por cierto que es mi madastra.
TRA. S’è detto il dicibile, s’è immaginato l’imaginabile, e s’è fatto il fattibile, per condurr’oggi questa nave à salvamento, e già pensava averla in porto: ecco ristorta una crudel tempesta di subito, rotto l’arbore, squarciate le vele, e la nave tutta sdrucita.
CAL. Come no? Mira bene.
ELI. Che volete, che miri? Costei nè vidi, nè conobbi mai.
CAL. Chi è dunque?
ELI. Dimandatene lei.
CAL. Dimmi tu, chi sei?
FIL. Y.ò no soy hyjastra, pues ella non es mi madastra.
CAL. Se non sei Donna Eufragia, chi sei? Che rispondi?
FIL. No se, que responder.
CAL. Non m’ai detto tu, ch’eri Donna Eufragia, moglie di Lelio. Ecco quì Elionora la madre de Lelio: sei al paragone: che dici ora? Ma perchè te ne dimando in vano? Che avendomi detto al principio una bugia, d’ogni cosa, che ti dimanderò, dirai parimente la bugia.
ELI. Costei com’è qui?
CAL. Sotto nome di vostra figliastra.
TRA. La tempesta quanto più sta, più inaspra, e minaccia naufragio, ho persa la tramontana,, le carta non mostra bene, la buffola non osserva, non serve più il compasso. Ma che? Posso combatter’ io contra il destino? Quel, che dee avvenire, forza è, che avvenga.
CAL. Tu non dici nulla, son’ uomo da esser burlato da lei? Mi parevi una agnella in vista, or mi riesci nell’opre una volpe: mostravi una fanticella, e devi esser qualche puttana diffamata.
FIL. Por hallarme in vuestra casa, me hazeis hablar con mas respetto, que debria. Yò no soy puta.
CAL. Ed il vedermi beffato da te mi fa venir a così sconcie parole. Ma sfratta di casa mia.
FIL. Con mas crianza echiarias a un perro.
CAL. Son risoluto, che non abbi a star’ un sol momento in mia casa. Ma stimo, che devii esser di marmo, poichè in faccia non mostri alcun segno de vergogna, e la vergogna si sarebbe arrossita; e gliocchi di vestro, che ancor ardiscono mirarmi. Taci, e vattene, e non far, che l’ira dalle parole mi faccia venir’ ai fatti.
FIL. Entre quanto asperos tormentos he sufrido hasta hora, niguno me ha parezido mas aspero, que allarme entre estos trabajos. Que queria maldizir la hora, en que nazii.
CAL. Ancora sei osa respondere? Non so, come non ti sotterri mille braccia: abbi a ventura, che non ti prenda per i capelli, e non te ne cacci con un bastone.
TRA. Ah Trappola, non perderti d’animo, non disperarti: sei gran maestro delle trappole, inventore, ed esecutore peritissimo: studia bene: ricovera l’animo.
CAL. Non senza cagione qual misero ruffiano diceva, ch’eri sua allieva, e quel soldato la sua puttana; ed io ignorante non sapendo quel, che mi dicessi, ti difendeva.
FIL. Quantunque mi vedi in sì misero stato; dove sono al presente, non pensar, che sia qualche misera, sciagurata: che sono gentildonna, ed in tutte le mie miserie, e travagli ho tenuto sempre cura dell’onor mio; e le tue mordaci parole non m’han fatto risponder da quella, che sono.
CAL. Adesso parli Italiano, non sei più spagnuola, due lingue in bocca: a Dio madonna.
ELI. Marito, di grazia abbi un poco di patienza, mi sento correr per le vene un certo incognito amico consentimento, che mi ha tutta piena di tenerezza, e di pietà di costei. Deve esser qualche giovane nobile assassinata dalla Fortuna. Mirate, che pianto
CAL. Non vi muovano quelle lacrimucce di puttane: non sapete, che tutte le donne ne an dietro gli occhi una carafina, e le scaturiscono ad ogni lor posta; e come non possono più ajutarsi con la parole, si ajutano con le lacrime? Mira, che alterezza tiene nella fronte.
ELI. Matrito, la grandezza del sangue ancorchè venga trapazzata dalla Fortuna, nell’opre dell’onore, si la sempre più altiera. Ma dimmi, poiche sei gentildonna così onorata, di che paese, di che città tu sei?
FIL. Di Spagna, di Barcelona.
ELI. Di chi fosti figliuola?
ELI. Io mio padre io non connobi, che mi lasciò picciola bambina, ma chi chiamava Don Giovanni di Moncada.
ELI. O Dio, che ascolto! Il tuo nome?
FIL. Adesso, mi chamiano Filesia, ail mo vero nome è Donna Elvira.
ELI. O buon’Iddio, favoriscimi tu. Il nome di tua madre?
FIL Mia madre mori nel partorirmi: (ahi rimembranza quanto sei acerba a chi si vide in grandezza) avesse piaciuto a Dio, che fosssi morta allor’io, che tanto tempo non sarei stata perpetuo bersaglio della fortuna: e dal nascer portai meco infausto presagio delle mie sciagure, Ma ebbi in suo luogo una madrigna, che mi amò più, che se mi fosse stata madre, e chiamavasi Elionora.
ELI. Non posso più tenermi.
TRA. O Dio, fosse costei la figliastra del mio padrone già promessa per isposa ad Arsenio, avendola predestinata i cieli dopo tanti travagli a congiugnersi con lui.
ELI. Mirami un poco, mi conosceresti tu per sorte?
FIL. Io sto così addolorata, che o perduta lal vista di gli occhi: mi par il mondo per me in tenebre.
ELI. Come fosti separata da quella tua madrigna?
FIL. Andavamo un giorno a spasso a Badoina in una nostra villa, al lido del Mare, fui rubata da una fusta di Mori, e per esser un poco di vista, mi donaro alla regina di Fessa. La servii molti anni, dopo mi comperò un mercantante Italiano per ducento scudi, per tornarmi a vendere a miei parenti.
ELI. O Dio, quanta allegrezza mi dai in questio giorno. Marito mio, ecco la mia figliastra modo cara, che fanciulla mi fu rubata da Mori, che avea designata sposa al nostro Arsenio.
CAL. Dite da vero?
ELI. Deh lascia, che t’abbracci, o Donna Elvira carrisima più che figlia: ahi quante lacrime ho sparse per tua cagione.
FIL. Di grazia vi priego, che mi rimiriate, e mi conosciate bene, acciocchè non, venendo alcun’altro, io sia un’ altra. Che tutt’oggi sono stata, come quello, che va ad appiccarsi, che ode gridar grazia, grazia, e poi impicca, impicca.
ELI. Figlia cara, tu sei dessa senza alcun dubbio, che già ti raffiguro; e piace a Dio, che ti veggia in luogo, ed in tempo insperatamene, ove non speravi di rivederti.
FIL. La fortuna s’ha tanto preso oggi giuoco di me, che se ben pare, che vi riconosca, pur non posso credere tanta allegrezza.
CAL. Figlia cara, confesso la mia sciocchezza, che l’età così giovane, l’intelletto così vivace, e maturo mi dovevano far accorgere, che voi non foste bastamente nata. Onde se vi piace, m’inginocchierò a vostri piedi a chiedervi perdono assai volentieri, se per voi, e per errore mi sono crucciato con voi, e trascorso in non convenevoli parole.
FIL. Eccomi, Callifrone caro, che se pur v’ho chiamato padre, non ho mentito: e se v’era finta figliastra, or vi son vera figlia e verissima serva.
CAL. Veramente dismostri, che non sei men bella dentro, che di fuori.
ELI. Chiamate Arsenio vostra figliola a qui avemamo destinata costei per moglie.
CAL. Volesse Dio, che fosse in Napoli: l’ho inviato dall’alba del giorno in Ispagna, che venisse a ritrovarve, e farvi compagnia infino a Napoli, in una buona nave.
ELI. Qual nave?
CAL. In una nave nuova, che penso, che già debba esser giunta a Gaeta.
ELI. Che bandiera portava la nave?
CAL. In quella di mezzo une croce rossa.
ELI. Da chi era noleggiata?
CAL. Da un Trifon Damiano Raguseo.
ELI. Quanto tempo è, che si parti da Napoli?
CAL. A buon’ora, dall’alba del giorno. Ma perchè me ne dimandate così a puntino?
ELI. Perchè una nave, qual voi proprio mi dipingete, l’abbiamo veduta oggi annegarsi dalla tempesta più in là di Pozzuoli, e noi siamo stati in grandissimo periglio.
CAL. Dite il vero?
ELI. Così vero, come vi veggio.
CAL. Oimè moglie, che la nave, che mi dici esser sommersa, m’ha sommerso in un pelago di amarissimo affano.
ELI. E’l pegigo fu, che calò a piombo, che non se ne salvo pur un’uomo.
CAL. Oimè, oimè, o figlio, o figlio mio, Veramente nel partirti di Napoli, mi sentii partir l’anima dal corpo, e lasciarmi in un certo modo afflitto, ed addolorato. Sentiva non so che nel cuore, che mi rendeva tutto conturbato. O occhi miei di pietra, perchè non versate voi tanto sangue, per non dir lacrime, quanto egli avrà inghiottito acqua?
TRA. O benedetta nave sommersa, che tu fai sorgere, ed arrivare in porto la nave mia! Ecco la luce di Santo Ermo: non più temo tempesta alcuna, senza la fortuna non speri l’uomo osar cosa, che vagli. O fortuna, chai sai pìu d’ogni consigliere; ed ajuti, e favorisci, chi sa servirsi di te. Tutta la mia fortuna è stata or’ora su la punta d’un’ago.
CAL. O Dio, che doglia acerbissima!
TRA. O Do, che allegrezza!
CAL. O giorno per me infelicissimo!
TRA. O giorno per me felicissimo!
CAL. O fiera disgrazia!
TRA. Quanto ti gringrazio, o disgrazia, che mi fai tanta grazia!
CAL. Questa nuova mi toglie dal mondo.
TRA. Ed a me da quell’isoletta di legno.
CAL. Quanta ho avuta allegrezza in acquistar la madre, tanto ho dolor d’aver perduto il figlio. Ho ritrovata la moglie, ho perduto il marito.
ELI. Non vi date di grazia tanto in preda al dolore, marito caro, che avete in ciò compagnia. Dispiacemi nel core, che la mia venuta vi costi così cara. Ma la medicina di mali irrimediabili è sola la pazienza: racconsolatevi.
CAL. Non può racconsolarsi quella angoscia, che non può ricever consiglio.
TRA. Orsù non è piu tempo di tardare, che una bugia a tempo non può comperarsi ad oro: acconcero il tutto: prima gli accrescerò dolore, poi lo racconsolerò con una insperata allegrezza.
ELI. Vorrei non esser venuta in Napoli, per non vedervi in questa malinconia.
CAL. Perdonami, moglie cara, se astretto dal dolore della morte del mio figliouolo, non posso far teco quei complimenti, e quelle accoglienze, che meritano l’amor, che ti porto, e’l’lungo tempo, che non ci siamo veduti. Entrata in casa: ch’io vò andarinfino al molo, per informarmi del tutto, e me ne volerò ratto a ritrovarvi.
FIL. V’ubbridiremo.

ATTO V, SCENA iv
TRAPPOLA, e CALLIFRONE

TRA. Scollatevi, o uomini, lasciatemi corere, non m’impedite la strada, accio chè trovi il mio padrone, e gli narri cosa, che l’importa tanto. Ma perchè corro, se non vorrei giunger mai? Perchè lo cerco, se non vorrei trovarlo, per non dargli tanto cordoglio?
CAL. Ecco Trappola frettoloso: par, che voglia narrarmi non so che di tristo, mi fa star sospeto. O che faccia smarrita! Non è cosa d’allegrezza.
TRA. Chi gli darà un nuova così crudele? E pur bisogna, che glie la dia io. O servitù, quanto adesso mi sei dura, poiche mi sforzi a questo uficio.
CAL. Il dubbo della sua morte, oimì, non è più dubbio. Trappola volgeti quà. Tu non mi vedi?
TRA. O Dio, con che proemio, con che principio comincerò per darli un nuova così dolente?
CAL. Oimè, che il cuor presago di quello, che n’ave a dire, par, che mi venga meno, e mi abbandoni, e schiva d’intender qualche cosa orribile, e nojosa. Trappola, che ai? Che non intendi?
TRA. Io era co’l pensiero così impresso, e così dentro nel dolor vostro, che nulla sentiva d’altro ascoltante.
CAL. Spacciati tosto.
TRA. Dubito, che non moriate di doglia.
CAL. Non dubitar, che mora più: che son già morto.
TRA. E’stato.
CAL. Che cosa stato?
TRA. Buttato dal mare.
CAL. Che cosa?
TRA. Un’uomo annegato.
CAL. Dove?
TRA. Al molo, rotto e fracassato in mille parti.
CAL. Conosci, chi sia?
TRA. Quì sta l’importanza: quì sta l’afflizione. Il vostro figlio.
CAL. O caro figlio! O mille volte infelice vecchioltu sei morto, ed io son vivo: tu giovane, e disioso di vita, ed io stracco di vivere, e disioso di morire. T’ho allevato, che ti avesse ad uccidere il mare, che si avessero a sommerger teco tutte le giioje, e l’allegrezze mie? T’ho ucciso, per mandarti in Ispagna, e ai bevuto con quelle amarissime onde quell’amaro, che toccava sorbire a me. O mare, quanto faresti stato pietoso, s’avessi inghiottito me, che sarei morto una volta; ma avendo inghiottito lui, inghiotti me mille volte per ora.
TRA. La spada, la cappa, e la beretta sono state tolte via. Sta con la bocca aperta in guisa, che par, che dica: padre, padre, mi mandasti in Ispagna, per uccidermi?
CAL. Taci, taci, che non posso più ascoltar le tue parole. Avesti, figlio più a caro l’ubbodenza, che la tua vita. Per non uscir dalle mie leggi, volesti più tosto uscir di vita. Misero me, che sono sforzato ad invidiare il mare, perchè egli abbraccia
il mio figlio, e meè vietato. Io non vò vivere più veramente, menatemi al molo, che vò sommergermi, e vò morir dov’è morto il mio figliuolo.
TRA. Voi non tanto lo mandaste in Ispagna per far compagnia alla madre, quanto per torlo alla sua innamorata.

CAL. E’vero, lo confesso: pensava far bene all’ora.
TRA. Quanto era meglio vivo in Napoli con la sua innamorata, che averlo ucciso sì crudelmente?
CAL. Volesse Dio che fosse vivo, che mi contenterei che teneste trecento puttane, e di tutto ne sono pentitissimo.
TRA. Poco vi giova ora il pentirvi. Ma poichè col dolore no lo potete tornar vivo, perchè piangete?
CAL. Però piango, che non posso tornarlo vivo col pianto: che essendo stato cagione del suo morire, sporavivo alla sua morte.
TRA. Tutta la vostra paura non era altro, che facendo l’amore, se fosse speso qualche dodicina di scudi: per risparmiar quattro miseri scudi, avete perso un figlio, che valeva tesoro.
CAL. Deh, non accrescermi più la doglia con le tue parole.
TRA. Or’ quanto paghereste, che fosse vivo?
CAL. Poco sarebbe pagar tutta la roba, ma lo riscatterei col sangue, e con quel poco di vita, che mi avanza.
TRA. Dite da vero, pagher este trecento scudi?
CAL. Giuro per queste croci, ch’io pagherei tutta la roba, ancorchè per vivere bisognasse andar mendicando tutto il tempo della mia vita.
TRA. Orsù datemi trecento scudi, ed io lo farò forse risucitare.
CAL. Furfante, ti par questo tempo da scherzi?
TRA. Datemmi tre cento ducati, vi dico, ch’io farò, che Arsenio vostro figlio risuciti quì in vostra presenza.
CAL. Ti romperò le braccia se perseveri.
TRA. Rompetemi le braccia, e la testa insieme, se non fia vero.
CAL. Avverti a non farmi rallegrar in vano: che te ne farò pentire.
TRA. Vi dico, che non vi rallegrarete in vano.
CAL. Eccoti questa catena, che vale cinquecento ducati: tienila in pegno, che domani ti darò quanti scudi tu vuoi.
TRA. Orsù vostro figlio è vivo.
CAL. Dov’è? Lasciamelo vedere.
TRA. L’avete avuto tutt’oggi dinanzi a gli occhi.
CAL. Non l’ho visto da questa mattina.
TRA. Quello, che stimavete Lelio, è’l vostro Arsenio.
CAL. Ma perchè finger questo?
TRA. Vi dirò il tutto. Un certo mio amico strolago m’avea detto per ragion di strologia, che vostra figlio si dovea annegare in quella nave: io per fargli schivar questo influso così cattivo, poichè voi eravete così ostinato, che partisse, ho ritrovato questo modo, per non farlo morire.
CAL. Ma perchè mi sei venuto innanzi con una nuova così cattiva, e fattomi affligger tanto?
TRA. Per darvi poi tutto in un tempo questa allegrezza maggiore, e che per l’avvenire l’avessi più caro, e con tanta allegrezza mi avesti poi perdonato più volentieri quello, che chiamate burla.
CAL. Io non ho mai avuta llegrezza in questa vita, quanta me n’ai data tu in un punto. Ahi, ahi,
TRA. Di che sospirate?
CAL. Di allegrezza io non sospiro, ma respiro dell’affano passato, e del contento, che mi soporavviene. Io certo non pensava amarlo tanto. Ma tu che ne vuoi far delli trecento ducati.
TRA. Sappiate, che Donna Eufragia, che vi abbiamo condotta in casa, era l’annamorata di vostro figlio, ed oggi il ruffiano l’avea venduta a quel capitano trecento scudi, ed andando in sua potere avrebbe perduto l’onestade, e le verginità sua: io con una trappola l’ho rubata al ruffiano, l’ho salvato l’onore, e riconosciuta Donna Elvira, sarà sua moglie, e vostra moglie ha ricuperata la sua figliastra.
CAL. O Trappola mio, quanto conto farò di te da ogg’innanzi. Ma non le tue trappole sone state cagion’di ciò, ma quell’ordinator di tutte le cose: egli ha fatto condurre costei in poter del ruffiano, e che ne sia innamorato Arsenio, che fosse oggi venuta mia moglie, e roscontrare tante cose. Ma Donna Elvira, che sapea, che non era morto Arsenio, quando m’affligeva, perchè non me n’avvisava?
TRA. L’aveva io prima ammaestrata, ed avenda veduto i miei miracoli tutt’oggi m’ubbidiva. Una sola parola, che avesse detta allo sproposito, era rovinato il tutto.
CAL. Ma quel, che non riuscendo sarebbe strato degno di biasimo, or, che è successo bene, è degno il gran lode.
Ma grande è stato il tuo ardire, anzi temerità a porti a tanto pericolo. E se la fortuna non ti ajutava, non so, come andava la cosa.
TRA. Poco importava per me: buona schiena non mi mancava. Ecco i mari, le tempeste, le puttane, i ruffiani, i danari, i capitani son rivoltate in tranquillità, in onestà, in nozze, in allegrezze, e in contento. Onde da ogg’ innanzi si ponga in obblio quanto di odioso, e rincrescevole è successo tra noi. E ricordatevi, che secondo vi ho detto questa mattina, che io non voleva, che vostro figlio fosse andato in Ispagna, è stato vero: che avrei liberata la sua innamorata, verissimo: che voi avreste pagato i trecento ducati, verissimo, che ce l’averei fatta tor per moglie, e condotta in vostra casa, arciverissimo: all’ora le mie parole vi parevano senza proposito, or sono tutte venute ad effetto. Hor attendete quello voi, che avete promesso da vostra parte, di farmi libero.
CAL. Conosco la tua grandezza, dalla quale, liberamente confesso, essere stato vinto. Vuole la ragione, che tu sia libero; anzi più degno della libertà di qualunque servo sia strato giammai, e parmi poca ricompensa al tuo gran merito: e perciò voglio, che tu sia ancor’a parte della mia roba.
TRA. Padron caro, tanto io con più ragione, ed amore attendero da ogg’innanzi a servirvi, quanto più conosco, che mi amate, e donate quallo, che avanza il merito mio. Ma acciocchè in tanta allegrezza non resti così dispiacevole, eccovi la catena, mandate al capitano i trecento ducati, per lo riscatto di Donna Elvira, e due soli scudi a colui per impresto delle vesti, e per quelle bastonate, che ha ricevute innocentemente, e la pena corporale cangiamola in pena pecuniaria.
CAL. E coti la borsa, e la catena: spendi, spandi, accomoda, e fa che ogni uomo resti soddisfatto.
TRA. O agustissimo mio padrone, la liberalità ch’usate ora, vi fa più onore di quanto n’abbiate avuto in vita vostra. Andrò a trovare Arsenio, che deve andar’ in esilio, per non compararvi dinanzi, e lo menaro a voi lo più presto, che sia possibile.

CAL. Presto, ch’io muojo de vederlo. Vò a dar questa allegrezza ad Elionora mia moglie, e a Donna Elivra, mia figliastra, e mia nuora; e vò ch’or’ora si sposino insieme. Inviarò a tor Lelio quell’altro mio benedetto figliouolo con Donna Eufragia sua moglie dalla nave. Entriamo.

ATTO V, SCENA v
ARSENIO, e TRAPPOLA

ARS. Disio di veder Trappola, e in questa tempesta, inquestio novolo di ruine balenasse per me speranza alcuna. Ma eccolo, e dubito non sia irato meco.
TRA. Olà, chi sei?
ARS. Io non lo so io.
TRA. Non sete il mio padrone?
ARS. Fui, non son più quello. Ma ti prego, dimmi, son morto, o vivo? O almeno pascimi d’alcuna vana speranza, acciò impetri pace delle mie angosce.
TRA. Le stelle ci sono state più assai propizie di quello, che averemmo saputo desiderare. Grida, o felici, ed avventurate trappole, o beati inganni, o fedelissimi tradimenti; e fa riverenzia al riverito da tuo padre.
ARS. Deh, di grazia dimmi, se dici da dovero, o pur sa scherzo?
TRA. E’venuta in Napoli tua madre Elionora, è riconosciuta la tua Filesia per Donna Elvira, che le fu tolta da Mori, ed è fatta tua moglie. Ecco la catena per restituire i trecento ducati al capitano, ecco la borsa per soddisfare al rivenditore, ed io son libero, non più tuo, nè suo schiavo d’obbligo, ma di sola volontà.
ARS. O più degno di libertà d’ ogn’altro uomo che viva in terra. Ma dimmi solo, è fatta la pace con mio padre della burla, che l’ho fatta?
TRA. Fattissima.
ARS. Ma chi avesse pensato, che quella, che m’aveva designata mio padre, e madre per isoposa, l’ha vessi amata io a caso, e riscattata dal ruffiano? O celeste bontade, che sempre sei più grande d’ogni mondana colpa! Chi può immaginar quello, che sta rinchiuso nell’abbiso de’ segreti della sapienza divina? O giorno, ch’io pensava, che avessi ad essere per me di sempre funesta, e calamitosa mi moria, ecco che sarai da ogg’innanzi celebrato più del mio giorno natale. O care pene, o miei fortunati affanni, ecco pur colgo il frutto del finissimo amor mio. Ma caro mio Trappola, dell’aver finto poco anzi di non conoscerti, te ne cerco perdono.

TRA. Vò, che la mia grandezza, ed amorevolezza vinca il vostro poco amore. Ecco il venditore Poleone.

ATTO V, SCENA vi
POLEONE, TRAPPOLA, ed ARSENIO

POL. Dimmi, caro mio Trapoola, costui, ch’è quì presente, è il tuo padrone Spagnuolo, o l’Italiano?
TRA. E l’Italiano, e non più Spagnuolo: eccolti le tue robe, e i tuoi danari.
POL. E mi potrò accostare a lui liberamente?
TRA. Sì bene. Tu fuggi?
ARS. Dove fuggi, fratello? Non son più quello, che pensi: accostati, eccoti i tuoi danari.
POL. Tu non m’ingannerai più: mi ci ai colto due volte, non vò, che questa sia la terza.
ARS. Non temer da vero.
POL. M’ingannasti sotto parlare spagnuolo, non vorei m’ingannassi sotto l’italiano. Mi usi parole più cortesi del solito: certo mi ci vuoi cogliere di nuovo.
ARS. Non temer sotto la fede mia.
POL. E pur sotto la fede tua m’ingannasti e dell’anello, e delle botte.
ARS. Fratello, la necessità non ha legge alcuna; e fa alcuna volta far cose non convenevoli ad un gentiluomo, però abbimi per iscusato: eccoti la tua roba: te l’ho buttata innanzi, se dubiti d’accostarti a me. Trappola vieni in casa, che li darò le vesti sue.
TRA. O aspetta quì, o entra meco, che avrai le robe tue. Spettatori, le trappole han sortito lieto fine, e già i trattamenti della Spagnuola son finiti. Andate in pace, e se la commedia è stata di vostro piacere, fate il solito segno, e favoritela di quel favore, che avete fatto all’altre sue compagne.

Il fine