ATTO IV, SCENA i
LEONETTO soldato, e LUCRINOLEO. Questa è la strada già, quella è la casa di Lucrino ruffiano mostratami dal capitano.
LUC. O quante grazie ho da rendere alla fortuna; poichè ho rotta la strada al nemico, che non può più stracorrere con l’esercito. Già Filesia è partita, non mi sarà più rubata, son’uscito da pericolo, e da paura. Trappola non mi può più trappolare. Mi sare contentato più tosto esser fatto in mille pezzi, ch’essere stato burlato da lui. Sono stato gran pezzo fantasticando, che beffa poterva egli farmi, ed ho trovato, che non poteva far’altro, che mandarmi a casa alcun vestito da soldato a chiederlami da parte del capitano: ma s’è ritenuto di farlo, perchè non sapeva il segnale, nè aveva lettere di sua mano, nè danari. Ma chi è costui, che va dritto in casa mia? Chi picchia, olà?
LEO. Son’io.
LUC. Che cosa son’io? Non ai nome?
LEO. Non mi conosci, o fingi non conoscermi?
LUC. Son’io forse obbligato a conoscer chi tu sia?
LEO. Son’ un soldato del capitan Dragoleone. Mi conoscerai ora?
LUC. Certo costui sarà quel travestito da soldato, che manda Trappola. Vò tormi un polo di spasso del fatto suo: ah, ah. Bestia di signoria vostra.
LEO. M’ingiurii ancora: ti ringrazio.
LUC. Dico, che bene stia la signoria vostra. Se non avete avuta creanza in salutar me, la voglio aver’io in salutar voi.
LEO. Della tua mala creanza, si duole molto il capitan Dragoleone, che avendosi comprata da te Filesia, in vece di mandargli lei, gli ai mandata una vecchia stregona. Così ti fai beffe di un par suo?
LUC. Ah, ah, che magra invenzione! Pensava, che l’avesse inventata meglio. Dimmi, quante volte sei stato passato per punte di picche nella bettaglia, e quanti anni avevi, quando il capitano cominiciò ad attaccarti il pugnal dietro?
LEO. A tempo, che appena lo potea sopportare. Ma bisogna far così, chi vuol diventare buon soldato.
LUC. Dimmi, ai ancora assuefatto il corpo alle cannonate?
LEO. O goffo, che sei! Come si può assuescar’un corpo alle cannonate?
LUC. Cominciando, da che sei piccino, ad assuesarti alle botte de gli archibuggetti, poi degli archibuggi più grandi, poi de gli smerigli, all’ultimo delle cannonate: che quando sarai grande, le soffrirai con minor travaglio.
LEO. Penso, che ti sai beffe di me. Di grazia non mi tener più a bada: dammi la donna, che il capitano non s’adiri teco più di quello, che gliè.
LUC. Orsù non voglio più tenerti a bada. Dì a Trappola, che questa volta le sue trappole non gli sono riuscite.
LEO. Che trappole? Che riuscite? Di grazia non più parole.
LUC. Sto immaginando, che non bastandomi l’avermi preso giuoco del fatto suo, gli vorrei far’un giuoco da dovero, di farlo andare in una galea: questo è un caso esemplare. O buon pensiero! Con una burla burleremo le sue burle, ch’ egli stesso caggia nella fossa, che s’ha fatta; ed incappi nella trappola, che ha teso. Così farò. Andrò per una guardia di birri, che lo menino prigione, e poi gli farò una querela.
LEO. Io non so, che tanta dimora: su finiamola, olà.
LUC. Fratel, la giovane non è in casa mia, che, per dubbio non mi fosse tolta, l’ho riposta in una casa d’un amico: aspettami quì un poco, che la ti condurrò or’ ora.
LEO. Spedia mola tosto, perchè ho fretta. Questa bestia si sta ridendo, e non sa, che il capitano sta adirato con lui, che par lo voglia beffare: egli si credeva aver compro una giovane bellissima, e questo furfante gli ha mandato in iscambio una vecchia contraffatta: non so come la salderà con lui.
LUC. Caporal, prendi costui, ch’ è un truffatore.
LEO. Questo a me, ruffiano?
LUC. Questo per ora, ma verranno appresso cose maggiori, che in premio almeno n’avrai una galea.
LEO. Ad un soldato onorato un simil carico, eh? Al capitan Dragoleone questo affronto? Egli verrà qui or’ ora, che sta infuriato, ed imbestiato contro te più che mai.
LUC. Dirai al capitano, ed a Trappola, che vengano a liberarti.
LEO. Fermate, fermate, ascoltate le mie ragioni.
LUC. Trascinatelo via, che verrò con voi ad informare il reggente delle sue furberie.
ATTO IV, SCENA ii
ARSENIO, e FAGONEARS. Già la mia, disiata Filesia deve essere in casa di Faggone, e con grandissimo desiderio deve aspettarmi. Io nuoto in un golfo di dolcezza. O Amore, per lo favor, ch’ora mi fai, io dimentico tutti gli affanni, i pianti, i sospiri, le vigilie, e tutte le noje, che ho sofferte, e ti perdono tutte le ingiurie, che mi ai fatte, e da oggi innanzi ti ringrazierò, ti benedirò sempre, e t’innalzerò con le lodi insino al cielo. O che abbraciamenti! Che baci sovra baci! Che strette sovra strette! Ma perchè trattengo me stesso in tanto desiderio? Tic, toc.
FAG. Chi batte? Olà, scostati, che la casa cade.
ARS. Dio mi aiti: la casa cade?
FAG. Non so, che abbiano le mie gambe, che non vogliono star ritte.
ARS. Fagone, che ai?
FAG. L’ho teco, che mi sai la sgambetta.
ARS. Costui arà fatto a pugni con qualche buon fiasco di vin greco, ed arà levato in testa. Fratello, la sgambetta te la fa il vino.
FAG. Chi sei tu?
ARS. Arsenio. Non mi conosci? O’ canchero ti mangi, m’ai fatto un rutto su’l volto puzzolente di vino.
FAG. Costui si pensa trovar il desinare apparecchiato, e giunger su’l buono, mal si’inganna: che ogni cosa è gita via, e quel poco avanza di vino, me l’ho asciugato.
ARS. Che è della mia innamorata?
FAG. Male novelle.
ARS. Oimè infelice.
FAG. Anzi me infelice, à cui sono accadute tutte de disgrazie.
ARS. Che male novelle?
FAG. Le piggiori, che potesti intendere: abbiamo fatigato in vano.
ARS. Si sono forse accorti dell’inganno, e non l’ai condotta a casa?
FAG. Anzi l’avea condotta à casa, e poi.
ARS. Che poi? Parla presto, non mi tener così sospeto, non mi far morir a poco a poco, che m’uccidi di doppia morte.
FAG. Rumori, fracassi, naufragi, uccisioni.
ARS. Che rumori, che fracassi, che uccissioni?
FAG. Me l’han tolta.
ARS. Oimè, che dici?
FAG. Il vero. Al primo incontro levò una botta in testa, e si ruppe in mille parti, e sparse tutto il sangue.
ARS. Oimè! O vita mia! O morte cruda, perchè non togli me dal mondo!
FAG. Poi salita su co’ piedi, la calpestò tutta, che nulla ci rimase di sano, o di buono.
ARS. Son morto: m’ai uccisio: m’ai dato un’coltello nel cuore.
FAG. Io? No, no: non ti ho tocco: il cotello al cuore io? Dio me ne guardi, non mi ci sono impacciato.
ARS. Segui presto, finisci di uccidermi.
FAG. Io non ti vò uccidere: io ti dico, se vuoi essere ucciso, va ad altri, val al boja.
ARS. Come l’han morta?
FAG. A bastonate.
ARS. Dunque elle è morta?
FAG. Mortissima.
ARS. A bastonate?
FAG. A bastonatissime.
ARS. E sparso tutto il sangue?
FAG. Tutto il sanguissimo.
ARS. O Filesia mia.
FAG. O cena mia.
ARS. O che mi muojo di doglia.
FAG. O che mi muojo di fame.
ARS. E come potrò vivere senza te?
FAG. E come potrò viver senza cena, come andrò digiuno a letto?
ARS. E non occorse il simile a te?
FAG. Perchè?
ARS. Perchè non l’ajutavi?
FAG. Attendeva a me.
ARS. A che attendevi?
FAG A ricoglier la parte mia.
ARS. Di che?
FAG. Delle bastonate.
ARS. Che t’importavano duo bastonate più, o meno.
FAG. Canchero, che mi dolevano forte.
ARS. Chi dava le bastonate?
FAG Ma moglie.
ARS. Perchè tua moglie?
FAG. Per rabbia, odio, furore, e gelosia.
ARS. O povera, ed innocente! Che colpa ci aveva ella?
FAG. Nè meno ci aveva colpa io. FAG
ARS. Dove su questa ruina?
FAG. In mezzo la strada.
ARS. Dov’ è il sangue? Dove sono le cervella? Dove la povera morta?
FAG. Non vedi quà i pezzi? Non senti l’odor del vino, che farebbe risuscitar’ un morto.
ARS. Che vino? Che pezzi?
FAG. Che donna? Che povera? Che innocente?
ARS. Di che parli tu?
FAG. E tu di che parli?
ARS. De Filesia mia.
FAG. Ed io della mia cena, el del fiasco rotto in mille parti: questo appartiene a me, di questo parlava io.
ARS. Canchero mangi te, la tua cena, ed il tuo fiasco.
FAG. Canchero mangi te, la tua Filesia e quante femmine sono al mondo.
ARS. M’avevi trafitto l’anima. In somma che n’è di Filesia? E’ viva, or morta?
FAG. Nè morta, nè viva.
ARS. Così tu mi trattieni ora in vita, nè morto, nè vivo.
FAG. Io la condussi a casa, e ci è stata gran pezzo aspettando, e mia moglie pensandosi la mia puttana, le saltò addosso il fistolo, la rabbia, e la febbre quartana, e la cacciò a bastonate.
ARS. Doi te’l dica per me, che dolore mi dai.
FAG. Più ne diede ella a me con le bastonate. E peggio quando mi ruppe il fiasco, e mi calpestò le robe.
ARS. O Filesia dolcissima anima mia, to t’ho condotta come vittima al sacrificio. Mentre eri schiava, eri salva: or fatta libera, ti ho perduta: t’ho liberata dalla casa del ruffiano tuo inimico, per perderti in casa de’ miei amici: t’ho fatta franca, acciocchè tu fossa battuta. E tua moglie è viva? Ha cuore? E’ cieca, che non vedeva, e non riveriva cotanta bellezza?
FAG. Più cieca fu, quando percosse quel fiasco, che stava con una ciera allegra e brilliante, con un bocchin, che parlava, e dicea, baciami, t’invito a bere: e me l’ha rotto in mille parti.
ARS. Ti avessi rotto il collo tu, ed ella in mille parti. Poì che fè di Filesia?
FAG. Mentre io attendeva a salvar la carne, ella versava il vino: quando correva a salvar il vino, ella calpestava in frutti, fra tanto le bastonate pioveano addosso: onde io sbarlordito dal dolor delle bastonata, e della perdita della robe, non mirava più innanzi.
ARS. Misero me, ch’io sono cagion d’ogni male, a fidar cosa di tanta importanza, la vita mia, in man d’un servo balordo, e d’ un’ubbriaco furfante. Ecco beffata ogni mia speranza. Ma di chi debbo dolermi, se non di me stresso, ed in me versar’ ogni colpa? Dolce Filesia mia, tu della mia sciocchezza ne ai portata le pena, e bevuto il calice della mia dapocagine. O dolore, che avanza ogni dolore, e pur non moro. Veramente chi non muore per amore, non è degno di vita. A te, cuor, per castigo darò perpetui sospiri: a voi, occhi perpetui fonti di lacrime. Ma chi sono? Che dico? Dove sono? Perchè non corro per queste strade, ricercandola? No, no, andrò per quest’ altra.
ATTO IV, SCENA iii
FILESIA, ed ARSENIOFIL. Misera me, qual mio grave peccato; o maligno influsso di stella mi condanna ad un partito così duro? So, che oggi la fortuna si prende giuoco del fatto mio. Ecco poco anzi rubata al ruffiano era quasi in poter del mio Arsenio, or mi trovo condotta in mille strane sciagure: o quanto farebbe meglio per me morire una volte, e non mille. Io vò aggirandomi di quà, è di là senza saper dove mi vada, o dove mi sia; ne fo, se sia bene nascondermi, o gir cercando. Se mi voglio nascondere, non so dove, ne nascosta spero poter trovare il mio caro Arsenio. Se camino, vò in pericolo di esser trovata, e condotta di nuovo in poter del ruffiano, soffir più gravi tormenti di quelli, che ho sofferti in fino ad ora. Il dubbio non ma fa gire, la paura non mi lascia fermare. Orsù io mi risolvo di andar cercando per quella strata di là.
ARS. Ho corso infino al castello, e dimandato un’uomo, se avesse veduto alcuna giovane bellissima sola per la strada, mi rispose averla veduta al mercato: corro al mercato, e dimando, e mi fu detto esser stata veduta alla strada di Toledo: son quì, e non la trovo e mentre sto col corpo in una parte, sto con l’animo in un’altra. O Dio! Vorrei dividermi, e d’un Arsenio farne mile, e per ogni cantone lasciarne uno, che spiasse della mia Fliesia. Chi sa, se alcuno l’incontrra adesso, e mirandola dal piè alla fronte, con tanto stupor degli occhi contempli d’un sì nuovo sol di bellezze gli atti, i costumi, le parole, il guardo, quel suo leggiardro portamento, ed un si ricco tesoro di tante grazie, e subito ne divien ingordo, e la rubi? Ella è pur degna di rapina. O mio tesoro di testori, t’ho perduto, e pur vivo? Deh se t’ho in queste braccia, ti stringerò così forte, che non se scaperai più mai; e chi penserà di svellertene, penserà prima di svellerne quest’alma.Dubito, che farò come la simia, che per troppo stringere i figli in braccio, gli uccide. Ma chi sa, se mentre parlo,alcuno la trascina a forza? Vò correre ad ajutarla.
FIL. O Dio! Mi dogliono gli occhi, per aver tanto mirato, se vedessi il mio Arsenio; ed ognun, che vedo, mi par lui, e pur lui non incontro giammai. Deh Amore, fa che l’abbia in queste braccia, che lo stringerò con nodo così perpetuo, che mai pù nè corsali, ne ruffiano, nè tema di castigo, nè timor di morte sarà, che più ne scampi; e bisognandomi morire, morirò seco. Non abbraciò mai uomo sommerso in alcun naufragio cassa, o legno per salvarsi, come io mi abbracierò col mio caro Arsenio, acciocchè mai più lo perda in questo amoroso naufragio; e chi penserà tormiti dalle braccia, penserà prima tagliarmi le braccia. Io vò cercando te, e tu devi andar cercando me. O Dio, non mi abbandonare!
ARS. Io dubito di perderla, per troppo cercarla. Io ho trascorso con l’animo, e col corpo tutto il mondo, e non ne posso aver nuova: vorrei, che Cerere mi prestasse il suo carro, col quale andò cercando la sua Proserpina, per anderla cercando a voglia mia. Andrò a tutti i trombetti di Napoli, che la bandiscano, e prometterli per mancia la vita mia. O infelicissima vita di chi ama, tutta angoscie, tutta tormenti! Oimè, che tutti i diletti di amore, appo un fastidio, sono nulla. Chi sa, se i cieli non l’hanno destinata per me, poichè mi è stata contesa tante volte? Ma avendomi acquistata la sua grazia con tanti stenti, arso per lei in tanto fuoco, seguita con tanta fede, rubatala a tante schiere d’innamorati con tant’ arte, sofferte tante indegnità, ed or fatta mia con tant’inganni, e ridotta in luogo sicuro, voglio, che sia preda d’altri? Dunque ho fatto in furto per altri? Sarebbe ben di ragione, che fosse mia. O anima mia, qual mio e tuo fiero destino ne scompagna, e fa, che patiamo l’un da l’altro un’ esilio così disperato?
FIL. Parmi sentir la voce del mio Arsenio.
ARS. Parmi, che veggio Filesia: sogno, o vegghio? Io veggio folgorar, e sfavillar quegli occhi suoi belli: io la veggio venir verso me.
FIL O Arsenio vita mia, ti sei forse nascosto da me, acciocchè ritrovandoti poi, t’avessi a ritrovar con maggior allegrezza? Il rispetto della strada pubblica mi vieta, che non possa mostrarti quel segno del desiderio, e della mia allegrezza, c’ho di trovermi teco.
ARS. O anima mia, che non è misura, che possa misurar’ il contento del cuor mio: sono attussato in un mar d’ ineffabil gioja: ma può più in meil reispetto dell’onor tuo, che mi vieta, che non ti baci quegli occhi. O stelle, che sete scese dal cielo, per porvi in questa fronte! Vorrei aver tanti occhi, quante stelli il cielo, o vorrei esser tutt’occhi, per satiarmi di mirarti.
FIL. Ed io vorrei esser tutta cuore, per esser capace di tanto amore, e poter tutta amarti: perchè tanto amo te, che non posso tanto amar me stessa. Che conoscendo, che ne’ tuoi degni costumi, e leggiardre fattezze consiste la mia beatitudine, da che mi ti diedi, feci ferma deliberazione, che l’anima mia, mentre sarà viva, abbia ad esser vostra ancella.
ARS. O degnissimo paragon di bellezza, sappi ch’una stessa fiamma arde il mio cuore, e’l tuo; che non meno amo io te, di quel, che conosco esser amato da te: e da questoi fò augurio, che niuno accidente contrario ne disgiungerà, e prego Iddio, che niuno chi disturbi, e separai fino alla morte. Ma acchiocchè io oggi vi possa condurre in casa mia, bisognerà, che tu finga chiamarti Donna Eufragia, e che sia mia moglie, e parlar spagnuolo, (che so, che ne parli benissimio) e nel rimanente ti governi secondo vedrai me fare.
FIL. Farò, come comandi.
ARS. Ecco mio patre. Troppo presto m’è sovragiunto: disiava informarti un poco meglio.
ATTO IV, SCENA iv
CALLIFRONE, ARSENIO, e FILESIACAL. Costui mi par’ Arsenio, no, no. Egli è Arsenio. O Arsenio, o Arsenio. Non mi risponde, non sarà lui, ma se gli rassomiglia molto, anzi è lo stesso. O Arsenio, respondimi.
ARS. Con qui en hablays hombre die bien.
CAL. Teco parlo. Non sei tu Arsenio?
ARS. Non soy Arsenio yò.
CAL. Forse ho preso errore, e non sarà Arsenio. Parla spagnuolo, certo sarà altri. Egli proprio mi par Arsenio. Io pensava, che ora fossi venti miglia discosto, come or ti vedo quì?
ARS. Por cierto que me haze reir. Mas quien no revera de las palabras deste hombre? Quando yò te uy? Quando me conoziste? Ho haveys algun deudo en esta tierra, que tenga cuidado de vos?
CAL. Perchè me ne domandi?
ARS. Que os tenga cerrado, y entertenido en casa.
CAL. Perchè devo esser tenuto serrato in casa?
ARS. Perque soys loco. Vos hablays con quien no conozistes, y llamays me Arsenio, y quereys que os responda.
CAL. O che io son fuora di me, o tu sei Arsenio. Io l’ho imbarcato, ed ho veduto far vela alla nave, ed arà ora fatto dieci miglia almeno, come è possibile, che sia sbarcato così presto, e giunto quì? Porta seco un bella giovane, ed alla ciera non mi par Napoletana, ma più tosto Spagnuola. Certo arò preso errore. Gentiluomo, come vi chiamate?
ARS. Lelio Afaidado.
CAL. Di che nazione sete?
ARS. Nazido en Espanna, a unque naatural de Napoles.
CAL. Oimè io mi sento da un occulto desiderio tutto accesso: forse costui è Lelio, l’altro mio figlio, che tanto io desidero di vedere? Di grazia, gentiluomo, ditemi di chi sete figliuolo?
ARS. Yò, de un cavellero muy principal, que es el sennor Califron Afaidado, Napoletano.
CAL. Vostra madre?
ARS. Mi madre es Eleonora, tanbien de Napoles.
CAL. Dove si trova adesso?
ARS. En Barcelona. Mas porque me proguntais de stas cosas?
CAL. Tua madre avea altri figliuoli?
ARS. Otro tiene a que en Napoles, que se dize Arsenio, a quien yò deseo mucho la ver, y mucho mas mi padre. Mas por que V. M. me ha preguntado de todo i nazimieno, os ruego que me digays, si conoscis a este Califron Afiadodo.
CAL. Per non tenervi a dimora, io son Callifrone Afaitado vostro padre.
ARS. Vos mi padre? Andà con Dios.
CAL. Perchè dunque no’l credete?
ARS. Me dixo mi padre, que es un cavallero muy principal, que bive a qui en Napoles.
CAL. Se ben’io vivo così alla filosofica, son pur padron di quaranta mila ducati, e non son’indegno di esserti padre.
ARS. Supplicole por amor de Dios me perdone, y incado de rodillas le pido perdon. Pues V. M. es el sennor Califron Asiadado mi padre.
CAL. Io son Callifrone, carissimo figlio, e desiderosissimo de vedervi, ed ho preso errore, stimando voi Arsenio vostro fratello, che molto vi rassomigliate. E mi ricordo, che essendo voi bambino, nè io, nè vostra madre vi potevamo discernere insieme.
ARS. Esto mismo he oydo dezir mil vezes à mi madre, la qual besa il vezes las manos, y los pies de V. M. mucho se le encomienda.
CAL. Come sta?
ARS, Nien està, gratis a Dios.
CAL. Chi è questa gentildonna, che vien con voi?
ARS, Dona Eufragia mi mujer, hyja de aquel cavallero, con quien se caso mi madre, antes que con V. M.
CAL. O nuora carissima, voi siate la ben venuta per mille volte.
FIL. Muy bien allada per mil vezes V. M. y Dios os otorgue todo lo que descays.
CAL. Non più, che vivere, e morir con voi.
FIL. Ni menos yò lo deseo.
CAL. O come sete fatta grande! O quante volte vi ho avuta in braccio! Certo, che non vi avre potuto conoscer mai. Sete fatta disposta, e bella.
ARS. Doy muchas gratias a Dios, que sin mucho preguntar yò ha allado mi padre.
CAL. Ed io ancora do grazie a Dio, perciocchè quanto è stata l’allegrezza più all’improviso, tanto è stata più cara. Orsù entraimo; questa è vostra casa.
ATTO IV, SCENA v
TRAPPOLA, CALLIFRONE, e ARSENIOTRA. Padron, sono stato tutt’oggi alla villa: ho fatto la vostra ambasciata al castaldo, e dice, che domani all’alba verrà à fare i conti.
CAL. Bene sta.
TRA. O signor Arsenio, voi sete stato di presto ritorno.
CAL. Ah, ah. Chi pensi tu, sia costui?
TRA. Arsenio vostro figlio.
CAL. Oh, come sei goffo! Questo è Lelio suo fratello, che lasciai bambino in Ispagna.
TRA. Dico, che mi par egli stesso, anzi è egli stesso.
CAL. Ti dico, ch’è Lelio, ch’è tanto simile ad Arsenio, che io, e mia moglie non potevamo discernere l’un dall’ altro.
TRA. Io vi dico, ch’è Arsenio, e voi mi volete dar la baja.
CAL. Ora vuoi tu la baja. Taci, che sei una bestia.
TRA. Quella donna chi’è?
CAL. Donna Eufragia sua consorte.
TRA. Quella è la sua innamorata.
CAL. Ah, ah. Come sei ignorante!
TRA. Ah, ah. Io sono l’ignorante, sta bene. Io vi dico, ch’è Arsenio, ed ha tolto in presto quel mantello, quel capello, e quegli stivali, e vi ha dato ad intendere, ch’è Lelio so fratello. Non vedete, che ride?
ARS. Quien e este hombre tan atrevido?
CAL. E’ un nostro servo, che suol burlar volentieri, è un mezzo buffone.
TRA. Parla spagnuolo adesto.
CAL. O Dio, s’è nato, ed allevato in Ispagna fin’ora, come vuoi, che parli? Ah, ah.
ARS. Quere jugar con migo este rapaz.
TRA. Avertite padrone, io ve lo dico. Questo è Arsenio, e non s’è partito altrimenti da Napoli; e quella donna è la sua innamorata, ch’era in poter del ruffiano.
CAL. Scoppio di riso, ah, ah. Chi non ridesse?
TRA. Ridete ora, piangerete poi: non dite, non ve l’abbia avvisato.
ARS. Que dize este truhan, berracho.
TRA. Io sono stato alla villa a far il vostro servigio. Io non ci ho colpa alcuna.
ARS. Pasè acà truhan, queremos burlar un poquito juntos.
TRA. Canchero allo spagnuolo, parla con la bocca, e tacciano le mani.
CAL. Quella signora è Donna Eufragia, figlia di quel cavaliere spagnuolo Don Giovanni, che fu primo marito di Elionora mia moglie: entrate, signor Lelio figliuol caro, e voi signora Donna Eufragia, questa è vostra casa.
ARS. Pasè adelante e’l primiero.
CAL. Entrate voi almeo, nuora carissima.
FIL. No me aga este tuerto os ruego.
CAL. Questo è mio debito?
FIL. Por vuestra gratia. Mas lo harè, pues me lo manda.
TRA. Io andrò per altri servigi.
ATTO IV, SCENA vi
POLEONE, CALLIFRONE, ed ARSENIOPOL. O ventura! Eccolo dinanzi la porta sua. Gentiluomo, Dio vi guardi.
CAL. Ecco questo altro, ah, ah.
POL. Di che ridete, padrone?
CAL. Con chi pensi parlare?
POL. Con questo gentiluomo quì presente.
CAL. Tu non lo raffiguri bene.
POL. Tu non lo conosco? Ho parlato più volte.
CAL. Non lo conosci, dico.
POL. Egli ha quegli occhi stessi, quel naso, quella bocca, quel viso, quei capelli, e quell’aria. Lo conosco benissimo.
CAL. Questo quì presente è il fratello di quello, col quale tu pensi parlare.
POL. Egli parmi così magro, pallido, com’era poco anzi: già gli uommini non si sanno a stampa, come le monete, che possano tanto rassomigliarsi l’un l’altro.
CAL. Ti dico, che Arsenio fratello di costui va in Ispagni, e s’è partito all’alba da Napoli, e deve esser presso a Gaeta.
POL. Io vò veder, se non vivo, o morto. Io vedo, io parlo, e mi muovo, e mi ricordo, che gli ho parlato questa mattina: egli è desso.
CAL. Che cervaci da lui, vò intender questa pratica.
POL. Per certe robe, che ha voluto in presto da me, m’ha dato in pegno un’anel d’oro con un rubino, qual dicea valer trenta scudi, e gli orefici m’han detto, ch’ è d’ottone, e che il rubino è un vetro falso, che non val l’uno e l’antro un carlino: or cherco, o che mi dia un pegno miglore, o mi restituisca le robe.
CAL. Poveretto, tu sogni, tu frenetichi.
POL. Come sogno? Come frenetico?
CAL. Mio figlio no ebbe mai simil sorti d’anelli, che non convenivano ad un suo pari quelle gioje false; e tu non lo devi conoscere.
POL. Anzi io vi dico, che voi non lo dovete conoscere, ch’io lo conosco molto bene; e colui, col quale ho trattato, è questo qui presente.
CAL. Questo, che qui vedi, è un gentiluomo spagnuolo, fratello di Arsenio,che gli rassomiglia tanto, che par lo stesso; e non è stato in Napoli, se non ora, che viene. Ma che avea bisogno delle tue gioje false?
POL. Mi disse, che volea far non so che burla al.
ARS. Con quien hablays vos? Hable con migo.
POL. Parla spagnuolo adesso.
CAL. Mira, che bestia! Se è spagnuolo, come vuoi che parli ebraico? Signor Lelio, quest’ asino v’ha preso in iscambio di vostro fratello; e si pensa, che voi siate lui.
POL. Forse avrò fatto errore. Questi parla spagnuolo, e quelli Italiano, forse sarà Lelio suo fratello, perchè tanto dice, che se gli rassomiglia. Egli è quello stesso di poco anzi, ioli veggio addosso le vesti mie. Gentiluomo, se non mi date le vesti mie, overo un pegno di maggior valuta, ve le torrò da dosso, che queste truffe non si convengono a’ vostri pari.
CAL. O Dio, come sei ostinato. Tu non vuoi credere, se non tocchi. Ti dico, che non è Arsenio: che dia vol di bisogno aveva Arsenio delle tue robe?
POL. Mi diceva, che voleva fare un’inganno.
ARS. Si luego luego no te apartays de aqui, yò te darè de palos. Vate con todos los diablos.
POL. Cerco la roba mia.
ARS. Tomà, tomà tu ropa.
POL. Oimè, deh per amor di Dio. Santo Antonio, ajutami, che costui non mi uccida.
CAL. Non t’ho detto, figliuol mio, che ti fossi partito, che parlavi con altri, che pensavi. Orsù non più collera: entriamo, figlio.
POL. Basta, me ne vendicerò ben’io.
CAL. E pur tenti, non ti ricordi delle botte, che ai avute: ce no sono dell’altre, se le cerchi.
ARS. Entremonos.
POL. Io me ne andrò alla corte, dirò le mie ragioni, e cercherò vendicarmene, se posso.
ATTO IV, SCENA vii
DRAGOLEONE, e DENTIFRANGOLODRA. Mi racconto favole, bugiardaccio: tu non ai fatto quello, che ti ho comandato, poichè in iscambio di recarmi la mia Filesia, mi rechi quella vecchia contraffata.
DEN. V’ho recata quella stessa, che mi consegnò il ruffiano.
DRA. Certo o sei, o fingi essere ubbriaco.
DEN. Io sono ancora digiuno.
DRA. Or vai cercando, che ti dai io da mangiare cinquanta punzoni per antipasto, bastonate a tutto pasto, e calci a dietro pasto.
DEN. Vi ringrazio, non ho fame, non fazio ancor di jeri.
DRA. So, che ti giucheresti l’anima, se l’avessi in tuo potere: ti avrai giucato i cento scudi, e poi da qualche bordello m’ai recata quella puttana vecchia.
DEN. Padrone, voi sapete, che non so giucare.
DRA. Però avrai perduto, perchè non sapevi giucare. Ma ti farò conoscere, che importi venirmi innanzi con queste favole.
DEN. Se troverete altrimenti di quel, che vi ho detto, fate di me quel, che vi piace.
DRA. Dimmi, a chi dessi i danari? Pazzo senza cervello.
DEN. Me l’avete fatto dir cento volte. Al ruffiano.
DRA. Come lo conoscesti?
DEN. Giunto al luogo, che voi m’insegnaste, trovai un servo, che mi stava aspettando, e mi mostrò una lettera di vostra mano, che voi li mandaste il giorno innanzi, e mi dimandò, se avea portato i cento scudi, e’l segnale: dissi di si: fece calar il ruffiano, gli diedi li danari, e’l segno, e mi consegnò Filesia, pregandomi a trattarla bene, e che le facessi carezze.
DRA. Pur perseveri a dir, ch’era Filesia? Ti caverò questa lingua, se più dice quel, che non è, non fù, ne può essere. Batti la porta.
DEN. La batto: tic, toc.
ATTO IV, SCENA viii
LUCRINO, DRAGOLEONE, e DENTIFRANGOLOLUC. O signor capitano, voi siate il molto ben venuto.
DRA. E tu il molto mal trovato.
LUC. Par, che stiate in collera meco. Forse lo fate, per non darmi la mancia della vostra bellissima Filesia, che vi ho mandata.
DRA. Ti darò un capestro per mancia, per appiccarti.
LUC. Non vi conosco per boja.
DRA. Voglio essere peggoi, che boja: che il boja si contenterebbe farti in quattro quarti, ma io ti squarterò in cento pezzi, e senza adoperar la spada.
LUC. Ah, ah, ah.
DRA. Che Diavolo ai. Pota della nostra, che non vò dire, tu ridi, mi da ancor la baja?
LUC. Le baja, mi par, che voi la volete dar’ a me.
DRA. Trovati un’altro mondo, per iscampare, che in questo dovunque tu fuggi, ti giungerò, ancor che fuggissi nella China, e nel Giappone; e ti farò assaggiare un pajo di artigliarie de questi pugni, ed un pajo di bombarde di questi calci.
LUC. Di che dunque vi dolete di me?
DRA. Par chi conosci tu il capitan Dragoleone?
LUC. Lo conosco per un capitan valorosissimo, e mio amico, e mio padrone.
DRA. Perchè dunque lo tratti da nemico? Non sai tu, che quando io ritraggo l’animo dalle gravissime cure de gli eserciti, per alleggiar, e rintuzzar gli spiriti infocati, e infuriati, mi riduco a trastullarmi con una donna, e per questo effetto m’ho compro da te Filesia. Tu in iscambio di lei mi mandi una vecchia strega?
LUC. Ah, ah, or che sete satio insi no a gli occhi di Filesia, ed avete pasteggiato, banchettato, ed alleggiati gli spiriti, fingete il collerico meco, e date la baja a me poveretto.
DRA. Tu ridendo mi fai venir in maggior furia. Il mi sò gran maraviglia di me stesso, che abbia tanta patienza, che non t’infilzi con la spada, come un becciafico: cattivo, furfante.
LUC. In quanto al cattivo è vero; ma il furfante no.
DRA. Furfantissimo, ingannatore.
LUC. Io vi dico, che non inganno, nè vivo d’inganno; e non ho ingannato, nè non per ingannare alcuno; e son uomo da bene, come ogni par mio.
DRA. Come uomo da bene, se sei ruffiano?
LUC. Son ruffiano, ed ho fatto questo ufizio quarant’ anni di ruffiano onoratamente, che niuno si può doler di me, nè dirmi un ma.
DRA. Come dunque ti pigli i miei trecento scudi, e mi mandi un vecchia in vece de Filesia?
LUC. Di grazia, vi prego, dite da burla, o dasenno?
DRA. Come da senno? Conoscerai, che all’ora dico da senno, quando ti darò una dodicina di bastonate a buon conto?
LUC. Ma che vecchia v’ho mandata io?
DRA. Tu’l sai, che me l’ai mandata.
LUC. Vecchia io? Che vecchia? E’venuto Dentifrangolo vostro servo, e mi diede la vostra lettera, e i cento scudi, e’l segnale; ed io gli consegnai Filesia vostra.
DRA. Dentifrangolo, fatti innanzi: intendi costui, che dice.
DEN. Intendo: quella donna, che mi fu consegnata, quella v’ho portata.
LUC. Io ho dato a te vecchia?
DEN. A chi diedi i danari, mi diede la vecchia.
LUC. Io questo? Quando io consegnai nè a te, nè a niunto vecchia?
DEN. Tu sì?
DRA. Taci tu. Taci tu ancora: e non rispondete, se non a quanto vi dimando. E’stato costui quello, che ti diede la vecchia, che mi recasti?
DEN. Quel ruffiano, che mi diede la vecchia, non stava così fatto.
DRA. Ai tu consegnato a costui Filesia?
LUC. Quel Dentifrangolo, a cui ho consegnata Filesia, non assomigliava a costui.
DRA. A chi dunque la desti?
LUC. Ad un’altro, che mi venne da vostra parte, mi diede la vostra lettera, i cento ducati di quella stessa moneta della prima, il segnale nascosto tra noi.
DRA. Dentifrangolo, racconta com’ è passata il fatto.
DEN. Io venendo quì, trovai un giovane con un naso aquilino, con certi occhi vivi come vipera.
LUC. Oimè, m’indovino la cosa.
DEN. Bruno, basso, macro, con certe guancie lunghe. 1490
LUC. Oimè, quelle guancie lunghe m’an dato un guanciata. Come si chiamava?
DEN. Nullacredimi, Tuttigabbali, Orofurali, Donnascambiali.
LUC. Vorrei morire, questi è Trappola.
DRA. O uomo ignorantissimo sovra tutti gli ignoranti, come non ti accorgevi, che ti voleva, ingannare? Se fosse stato tuo padre, o tuo fratello, non poteva avvertirsi meglio. S’egli ti diceva, chi si chiamava Nullacredimi, acciocchè tu non gli credessi, perchè gli credesti? Se diceva, che si chiamava Tuttigabbali, e che voleva gabbar ancor te, come ti facesti gabbare? Ti disse Orofurali, perchè te voleva furare i cento scudi; e Donnascambiali, perchè ti voleva scambiar la giovane per la vecchia.
DEN. Io non avea cura all’ora della parole, che diceva; ne d’interpretar il suo nome, ma a far bene il vostro servigio.
DRA. Quedo era mio servigio, non farti ingannare.
LUC. O misero me, che debbo dunque fare?
DRA. Porti un capestro al collo, ed appiccarti.
LUC. Deh, uccidetimi per amor di Dio.
DRA. Tu vuoi morir’ a posta per non pagarmi: ma dammi prima i miei trecento scudi, e poi fatti uccidere a tua posta da chi vuoi.
LUC. Io moro.
DRA. Non morir prima, che mi paghi.
LUC. Io moro.
DRA. Io vò, che tu viva a tuo dispetto.
LUC. Oimè, oimè.
DRA. Guai ti dia Dio.
LUC. Oimè, ch’io sono stato ministro del mio danno: che mentre pensava ingannar lui, egli ingannava me; e pensando burlar lui, burlava mestesso: anzi me ne avvisò prima, che voleva ingannarmi, ed in quel punto che m’ ingannava, egli proprio me ne avvertiva, ed io sbalordito, più sta va faldo all’inganno.
DRA. Chi è questo, che t’ha ingannato?
LUC.Trappola.
DRA. Se sapevi, che si chiamava Trappola, perchè ti lasciati trappolare? Pensi, che quel nome gli toste posto a caso.
LUC. Poichè ha ingannato noi due, però ambedue diamogli il castigo.
DRA. Egli non ha ingannato, se non te. Ma non merita castigo alcuno, se questa mattina t’avisò, che ti volea ingannare, e te ne avvisò in quel punto stesso.
LUC. Mi sono tutt’oggi guardato da lui con tutto il mio potere, e con tutto ciò m’ha pur gabbato. Ne mi duol tanto d’aver perduti i danari, quanto d’essere stato burlato. Vi è di peggio, che voi mi avete mandato un’altro vostro, servo per Filesia; ed io pensando, che lo mandasse Trappola, per burlarmi allora, l’ho fatto mettere in prigion da’ birri.
DRA. Poter del mondo, che cocsa dici? M’ai aggiunto ingiurie ad’ingiurie.
LUC. Io non l’ho fatto, per ingiuriarvi, che meriterei ogni castigo; ma pensava qualche uomo finto, così il finto ho stimato per vero, e’l vero per finto.
DRA. Su alle mani, diasi qualche rimedio: trovintì colloro, che son’uomo di tormela per forza dove la trovo, anche da man del Diavolo.
LUC. Mi par, che andiamo in casa di Callifrone padre di Arsenio, perchè egli ne sta innamorato ardentemente, e cerchiamo prima con cortesia, se possiamo aver qualche luce del fatto, e dove si ritrovi; e poi s’usi la forza.
DRA. Entra tu, brava, e fulmina con la lingua, e sta sicuoro, che avrai sempre alla spalla Dragoleone. Io mi porrò dietro questo angolo per guardia, e per riparo, e per ogni cosa, che potesse succedere.
LUC. Io batto. Tic toc.
ATTO IV, SCENA ix
CALLIFRONE, DRAGOLEONE, e LUCRINOCAL. Che volete da me?
DRA. Quello, che intenderai.
CAL. Che furia è questa?
DRA. Tu devi esser forestiere in questa terra, poichè non mi conosci. Digli tu, Lucrino, chi sono.
LUC. Avvertite, Callifrone, che costui è un valente capitano.
DRA. Che capitano, capitano? Io sono il commestario della peste, il luogotenente della morte, il colonello dell’ uccisioni. Per dirla in breve. Io sono lo struggimondo, ed in quella casa, che ardisce ingiuriarmi, resta un perpetuo testimon del mio valore.
CAL. Lunge dunque dalla mia casa, che non ci ai a far cosa alcuna.
DRA. Anzi più qui, che in altro luogo. Se Arsenio tuo figlio non mi torna la mia schiava, darò tale scossa a questa casa, che la farò volar per l’aria, come se fosse contraminata concenntro barili di polvere, e se m’ha rubata la dona, non m’ha rubato l’animo, il valore, e la gagliardia.
CAL. Io non so, che vogliate di quà con tante bravure, e con tanta superbia: che ho uomo in casa, che ne ha per se, e per altri, ed in sua presenza vi farà aver poche parole, e vi farà pentir delle già dette.
LUC. Callifrone, di grazia ascoltate il fatte, e quel’che può farsi per cortesia, non si faccia con isdegno. Io aveva una schiava in casa, che l’avea icomperata ducento ducati in Barberia. Arseno vostro figlio mi è stato gran tempo d’ intorno per averla. Il capitan qu presente se l’ha comperata da me per trecento, vostro figlio e Trappola han tanto trappolato, che me l’an rubata di casa.
CAL. Quando su questo?
LUC. Poco innanzi questa mattina.
CAL. Or mirate, se sete fuor di cervello. Trappola dall’alba del giorna è stato alla villa, ed è tornato or’ora. Arsenio mo figlio è gito à Barcelona, e già deve essere a Gaeta.
LUC. Ho veduta tutt’oggi Arsenio vostro figlio, e Trappola non me l’ho potuto mai tor da piedi.
CAL. Io dico, che non l’ai potuto vedere.
LUC. Io dico il vero, ch’egli me l’ha tolta.
CAL. Ed io ti dico, che qui non può essere veritade alcuna.
LUC. Ditemi di grazia, ha egli condotta in vostra casa alcuna donna?
CAL. Son quindeci anni, che in mia casa non fu donna giammai, eccetto oggi, che è venuto Lelio, un’altro figlio, che ho, da Barcelona, e menatasi seco una gentildonna principale sua moglie, chiamata Donna Eufragia.
LUC. Non ci fareste tanto favore di farci vedere Donna Eufragia?
CAL. A che proposito? Che ho afar con voi? Con che proposito dirò ad una signora nobilissima, che certi uomini la vogliono vedere?
DRA. Avvertite, ch’io sono il capitan Dragoleone di tanta fama, che bisogna allargarsi il mondo, per capirla. Stipendiato dal rè di Spagna, da quel di Francia, e da quel d’Inghilterra, infin dal Turco. Ad un mio cenno ho cento bandiere di soldati, che porranno sossopra il mondo. Or mi riduco a pregarvene, per non far qualche stroppio, o strage qui innanzi del vostro Arsenio.
CAL. Ad Arsenio tu non farai stroppio alcuno, che è gito in Ispagna.
DRA. Ho le braccia così lunghe, che giungono infino all’Inghilterra.
LUC. Vi preghiamo per cortesia con alcuna scusa de farcela veder solo.
CAL. Son contento. Vò soddisfarvi. O di casa, fate intendere a Donna Eufragia, che per frami grazia, cali quaggiuso un poco. Resterete ingannati, che Arsenio è fuor di Napoli dall’alba, ed in mia casa non v’è schiava alcuna.
ATTO IV, SCENA x
FILESIA, CALLIFRONE, LUCRINO, e DRAGOLEONEFIL. Sennor padre, que manda V. M.
CAL. Costoro hanno caro vedervi.
LUC. Io trasecolo, questa è Filesia lia mia fchiava.
DRA. Anzi mia signora Conoscio gli occhi, che lucorno più del fanale della mia galea, e che feriscono più de gli arhcibuggi.
CAL. Signora, conoscete costoro?
FIL. Nunca jamas me acontecio de verlos, puescomo los puedo conozer yò, si agora legamos a quì de Barcelona?
LUC. Conosci, Filesia, me?
FIL. Con quien hablays vos?
LUC. Con Filesia.
FIL. Pues no hablays co migo.
LUC. Voi chi sete?
FIL. No tengo abligazion de dar cuenta a vos.
LUC. Ditelo per cortesia.
FIL. Quiero que mi cortesia venca a vostra mala crianca. Yò me llamo Donna Eufragia.
DRA. Conoscete me?
FIL. Nunca os vi.
DRA. Il capitan Dragoleone?
FIL. Jamas he hoydo dezir tal hombre. Que pregotas son estas? A si me hablays, como si mucho tiempo mi vuierades conocida.
LUC. Non conosci Lucrino ruffiano?
FIL Que tiengo de hazer yò con alcaghuetes? Deveriedes de buscarlo en la putaria. Quando yò vì tal casta de jentes?
LUC. Or parla spagnuolo, i capelli non mi parevano così biondi, nè ella così vermiglia. Forse avrò fatto errore. Ma quanto più la miro, più mi par’ella. Dico, che è dessa. Queste son le carezze, Filesia, che ai avute in casa mia? Queste i buoni trattamenti?
FIL. Estoy imaginando, que erades locos, pues dizistes cosas tan estrafias, que nunca las oy en my vida.
DRA. Non conosci dunque il capitano?
FIL. Nunca me allè in la guerra, donde haya conocido soldados, mas porque estoy perdiendo el tiempo hablando con estos picaros, que en veniendo mi marido, os que brarà las cavesas?
DRA. Questa è mia schiava, e l’ho comperata trecento scudi: e perchè sei mia, non basterà totto il mondo a vietarmi, che non ti toglia.
FIL. Que atrevimiento es este? Y que importunidad, valgame Dios?
ATTO IV, SCENA xi
ARSENIO, DRAGOLEONE, CALLIFRONE, e LUCRINOARS. Apartaes rapaces, picarazos: yò os que brarè las cabezas, por que tanto astrevimiento haveys tenido en poner manos e una sennora?
DRA. Fermatevi, ascotate la ragione.
ARS. Quero que le espada sea mi razon, y el derecho, tomà esto, que esta es mi razon.
DRA. Non mi tener, ruffiano, che non ammazzi costui, lascialo castigare a me.
LUC. Chi ti tiene? Non ti tengo eio.
DRA. Ruffiano, poniti dal corno destro innazi, ch’io dal corno sinistro a guisa d’una falange macedonica gli darò dentro. Menti, che io sia rapazzo.
ARS. Mentis vos, porque mentis lo que soys.
DRA. Se ben la querela non ha luogo, ne sono tenuto a duello, par ti farò conoscere, che la mentita è vera.
ARS. Yò te harè conocer que esto es el verdadero mentir, y te cortarè les orejas, y narizes.
DRA. Più tosto morir con valore, che morir con disonore.
ARS. Mil palos darè en estas espaldas de picaro.
DRA. Il temo è padre, e la tardanza è madre delle vendette: m’informerò del negozio meglio, poi ti risponderò; che la spada vuol ragione.
ARS. Vayase de a quì.
DRA. Me no vò, perchè ho da fare, non perchè lo dici tu.
LUC. Peerderò io dunque la schiava, e i danari?
ARS. Vayase di a quì alcahguete, ladron, en hora mala.
LUC. Io ancora me n’andrò.
ARS. Vamenos mi padre.
CAL. Andiamo.
DRA. O Dio, quando egli si tiro dietro, non poteva passar di piedi io innanzi con questa stoccata? Non poreva secondar con questo fendente? Come averebbe potuto riparar questo stramazzone? Che maglia aurebbe potuto sostener questa stoccata? Cascava in terra, l’averei transcinato per i piedi, poi tratto in un’altro mondo. Non poteva trovarmi addosso il giacco, la corazza, ed i bracciali? O Dio, o Dio.
ATTO IV, SCENA xii
TRAPPOLA, ARSENIO, e POLEONETRA. Ma dove troverò il padrone, per avvisarlo d’un suo fatto? M a tempo vien fuori di sua casa. Padrone, il venditor Poleone è andanto alla corte, e gli sono stati consegnati i bracci del manigoldo, e vi vanno cercando, dubito, se v’incontrano, che non vi portino in prigione, e vostro padre si accorga di esser stato burlato.
ARS. Non mi mancherebbe altro: che è poco men che accorto dell’inganno, per esser venuto il capitano, se non giungeva a tempo, se la menavano con essi loro.
TRA. Oimè, voi che faceste?
ARS. In poner mano alla spada, suggirono.
POL. State in cervello, o voi, che veggio quei, che m’han tolte le robe mie. Ma io vorrei prender quel servo, che del padrone non son così sicuro, e dubito averlo poco innanzi preso in iscambio, questi è spagnuolo, e quelli Italiano.
TRA. Che volete voi? Che cercate da me?
POL. Vò, che venghi in prigione; o restituisci mi le robe.
TRA. Ecco quì il padrone, dimandale a lui. Io sono un povero servo.
POL. Signor, volete restituirmi le robe, o meno costui in prigione?
ARS. Vayase de a qui, vos no sabeys quen soy yò, agora llego en ella tierra, ne teneys verguenza hablar con un cavallero con tan poco rispetto?
TRA. Padron, di grazia pagatelo, o restituitegli le robe.
ARS. Yò no he lo que dizes.
TRA. Or, che avete ottenuto il vostro intento, non sapete quello, che dica?
ARS. No se quien soys.
TRA. Ora non consocete Trappola?
ARS. Que Trappola? Que Trappola?
TRA. Così non fosse mai stato. Che dite? Volete pagare, o che mi portino prigione?
ARS. Que te lleven adonde quieren, que se me dà.
POL. Signor, se lo porto, non uso scortesia, perchè ho ragoine, e se volete, che la dica, dirò.
TRA. La dirò io. Signor il mo padron’ Italiano mi comandò, che per un suo servigio gli trovassi alcuni panni: gli trovai, e gli togliemmo a prestanza da questo giovane, egli gli diede in pegno un’anel falso. Or che avuto ha il suo intento, viene il padron co i birri, vuol le robe sue, o un pegno migliore, o ch’io vada prigione. Quel padron’ Italiano parla spagnuolo, e dice, che non è lui: or date la sentenza di grazia, questo padrone la fa da uomo da bene, o da ingrato, e da asino.
ARS. Si, es verdad, razon teneys.
TRA. E che sia un’asino, non voglio altro testimonio, che voi medesimo: perchè voi stesso sapete, si sia vero.
ARS. Yò me voy, que tengo que hazer.
TRA. Fratello, di grazia ricordati ben, che una metà delle robe dasti a me, l’altra al padrone: le robe, che dasti a me, son salve in questa casa, e te le ritornerò or’ ora.
POL. Vada, un compagno con lui, che noi v’aspetteremo quì. Il mondo è incattivito tanto, che non si può più vivere. Doni la roba tua ad un gentiluomo, poi ti dà un pegno falso, e dice, che non ti conosce.
TRA. Eccove la robe di velluto, il robone, il manto, la spada, e la gorgiera, il capello col pennacchio, gli stivali, il mantello da viaggio, e’l cappello gli tiene eglo addosso.
POL. Dimmi di grazia, quello spagnuolo di poco anzi, se è quell’ Italiano di questa mattina.
TRA. Quello stesso: o Dio! Non lo conosci? E le robe tue, che tiene addosso?
POL. Deh se lo trovo, lo porterò prigione senza rispetto alcuno, e farò la vendetta delle bastonate, che mi diede questa mattina. Ma eccolo che torna.
ARS. Veramente la bugia cammina zoppa: facciasi quel, che si voglia, che è sempre sovragiunta dalla verità. Il nostro fatto va di male in peggio. Dispiacemi, che Trappola sia prigione, che senza lui sono, come nave senza timone. Io non poteva altrimente liberarmi da quelli, se non avessi finto di non conoscerlo. Dio sa, se me n’è dispiaciuto.
POL. Togliete ni costui prigione: son risoluto aver la roba mia.
ARS. Que quereys vos de my.
POL. Non bisogna più parlare spagnuolo: o datemi le mie robe, che tenete addosso, o venite prigione.
ARS. Trappola haz de manera, que ne vaya en prision.
TRA. Trappola io? Poco anzi dicevate, che non mi conoscevate: come mi conoscetse addesso? Io non vi conosco, nè so con cui parliate.
ARS. Por vida tuya hagamos de manera, que estes me dexen.
TRA. Fatelo voi. Che avete a far con me? Mi raccomando.
POL. Orsù, o tornatemi le robe, o andiamo in prigiona.
ARS. Se vò prigione, è l’ultima mia ruina, e si scuopre il tutto: vò più tosto morire. Quitaos de hay con todos los diablos, se non queos matare.
POL. Oimè dove fuggite? O voi, o canchero.
Atto V