ATTO III, SCENA i
DENTIFRANGOLO soldato, e TRAPPOLADEN. Se la stanchezza del viaggio non m’ha tolto insieme con la forza la memoria, questa mi par la strada, che m’ha insegnata il capitan Dragoleone, dove abita il ruffiano. Oh come volentieri m’abbatterei ad alcuno, che m’insegnasse la casa.
TRA. Costui sarà quello, che attendo: lo conosco all’abito, ed al portamento.
DEN. Veggio un giovane: lo dimanderò. O uomo da bene.
TRA. Uomo da bene mi chiama, o che ciera di bufalo! Conosco ch’è un’ignorante. Lo vincerò al sicuro. Vittoria, Vittoria. Se ben’io mai fui uomo da bene, pure per non farti bugiardo, vò risponderti.
DEN. Ribaldo piu di tutt’i ribaldi, Iddio ti salvi.
TRA. Iddio ti salvi, e contenti, com’è il mio desiderio. Ma chi cherchi?
DEN. Fratel mio, un, che non so chi sia.
TRA. Fratellissimo mio, nè voi lo troverete.
DEN. Un certo ruffiano.
TRA. Andate al bordello, che ivi te ne sarà data nuova.
DEN. Volgio dir’ un’uomo, che tiene donne da vendere.
TRA. Se tu mi avessi detto un dottore, or un medico, si potrebe dubbitare in questa città, di chi dicessi; ma dicendo ruffiano s’intende per eccellenza il mio padrone. Ma ditemi il nome.
DEN. L’ho avuto fin’ora in memoria, ed or se n’è fuggito.
TRA. Dovevi serrar la porta bene, o tenerlo legato, che così non ti fuggiva. Ma suona à raccolta, forse ritorna.
DEN. La sua mercantanzia mi piace così poco; che non è maraviglia, che mi sia suggito: il riteneva mal volentieri.
TRA. Si chiama forse Lucrino?
DEN. Sì, sì, Lucrino m’ha detto il capitano.
TRA. Ma dimmi, saresti tu per avventura il servo del capitan Dragoleone?
DEN. Io son desso.
TRA. Come ti chiami?
DEN. Dentifrangolo.
TRA. Troppo bravo è questo nome.
DEN. Mi chiamano così alla guerra, che ad ogni pugne, che m’esce da questo bracchio, frango i denti a colui, che lo riceve; e ce li fo sputar fuori della bocca. Ma tu, che ai voluto saper il mio nome, come è il tuo?
TRA. Se mi prometti fargli buone spese, che non ti fugga, lo ti dirò: io mio nome è Nullacredimi, Tuttigabbali, Ororubali, Donnascambiali.
DEN. O quanti nomi!
TRA. Non è maraviglia: son di razza spagnuola, ed ho un nome per quarto. Da mio padre ho il Nullacredimi, da mia madre Tuttigabbali, da mo avo Ororubali, da mia ava Donnascambiali.
DEN. Torniamo a casa. Mi sapresti dar nova del ruffiano?
TRA. Fa conto, ch’io sia il sottoruffiano.
DEN. Tu il sottoruffiano?
TRA. Il sottoruffianissimo, e stava aspettando te proprio: perchè mi disse il padron questa mattina, che oggi faresti venuto con cento ducati per saldo di trecento, che gli deve per lo prezzo di Filesia, e col segnale.
DEN. I danari eccoli nella borsa, ecco ancora la lettera.
TRA. Conosci tu questa da che mano è scritta?
DEN. Conosco benissimo, del capitan Dragoleone.
TRA. Il segnale?
DEN. Non l’ho da manifestare a te, ma solo a lui.
TRA. Fai bene. Ma tu accostati quà, ponti in prospettiva: vo veder se nel tuo volto ai certi contrasegni, che ci ha lasciato il capitano Dragoleone, quando ti diede i ducento ducati?
DEN. Dimandi il giusto: mira bene.
TRA. Ecco il naso corvino, e i diti con l’unghie arroncigliate come nibbio, che è segno, che sei un sollennissimo ladro: ecco l’orecchie lunge, che dimonstrano, che sei un asino. Pocobarba, e men colore: sotto il ciel non è peggore. Tu sei veramente servo da soldato.
DEN. Che abbiamo ora a fare? Chiama il tuo padrone, che mi consegni la donna.
TRA. Andiò a chiamarlo.
DEN. Felice fortuna ho per certo incontrata oggi, che mi spedirò più tosto di quel, che pensava: porterò la donna desiderata al padrone, che questa notte non mi ha fatto dirmir mai, per mandarmi mattino; e sarà fatto il servigio con diligenza, e senza niuno inganno.
ATTO III, SCENA ii
FAGONE, TRAPPOLA, DENTIFRANGOLO, e GABRINAFAG. Dov’ è il servo del valoroso capitan Dragoleone, mio carissimo padrone?
DEN. Eccomi.
FAG. Dove sono i danari?
DEN. Nella borsa.
FAG. Miragli tu, se non buoni, giusti, e non scarsi di peso. Tra tanto dammi la lettera.
DEN. Toglietela.
FAG. Qual’ è il segnale? Qui sta in fatto.
DEN. Che ti tocchi la punta del naso.
FAG. Con patto però, che non t’abbi a toccar dietro poi.
TRA. Padrone, i ducati sono giusti.
FAG. Va chiama tu Filesia. Giovane mio, di grazia, falle carezze, che le merita certo. Me l’ho levata come figlia, ed or, che si parte, par, che mi si schianti il cuore, e se non fosse la necessità de’danari, non l’avria fatta partir da me: però ti priego, che ti sia raccomandata; e prega il signor capitano da mia parte, che le faccia carezze.
DEN. Senza, che voi lo preghiate, le farà carezze; e l’avrà più cara, che la vita stessa: ha speso tanti danari per questo
effetto. E’stato soverchio raccomandare a lui le cose sue.
FAG. Filesia mia, va di bona voglia, non piangere, che verrò a vederti spesso, e domani verrò in galea a visitare il signor capitano.
GAB. Patron mo, io mi parto molto addogliata da voi: che se ben vò in parte, dove mi saranno fatte carezze, tuttavolta avea preso affezion con voi, come di padre. Io resto obbligatissima alla cortesia, che avete usata verso me, la quale in vero è stata più, che non meritava: percciocchè essendovi schiava, mi avete trattata da figlia. Pur vi cerco perdono, se non v’ho servito, come meritavate.
FAG. Va, figlia, in buon’ora: m’ai mosse le lacrime di tenerezza.
TRA. Dentifrangolo, va con Dio.
DEN. Resta con Dio, Tuttigabbali, Nullacredimii, Ororubali, e Donnascambiali. Filesia mia signora, non piangete, di grazia: state di buona voglia, che v’assicuro, che sarete molto ben trattata dal capitano per la grandissima affezion, che vi porta.
GAB. Mi sforzerò di farlo.
ATTO III, SCENA iii
TRAPPOLA, e FAGONETRA. S’ e’ fatto il più difficile, resta il più facile; e spero, se ti sei portato bene col più, ti porterai meglio con meno.
FAG. Anzi avanzeremo di bene in meglio.
TRA. Orsù non perdiam tempo. Va a vestirti di soldato, e con la borsa, con la lettera chiusa, e col segnale anderai al ruffiano, e ti farai dar Filesia.
FAG. Così farò.
TRA. Io penso, che a bastanza arai compreso l’inganno: pur, se vuoi, te replicherò il fatto.
FAG. Nè astuto, nè forfante sarei, se non ti’intendessi ad un cenno.
TRA, Ascolta pure.
FAG. Conosco, che non ai la pratica de’pari miei. Bisognando, vincerò il demonio ancora, che è padre delle menzogne, e de gl’inganni.
TRA. Ascolta.
FAG. Se fusse cosa bona, n’arei bisogno; ma essendo cosa cattiva, la so benissimo.
TRA. Io ora me ne vò al ruffiano, e mostrerò trattar con lui alcun partito; e tu verrai su’l meglio, per farlo star piu forte all’inganno, tu non lasciar di far sempre il tuo uficio, e mostra adirarti meco.
FAG0. Come arò Filesia, che farò?
TRA. Portala subito à casa tua.
FAG. La porterò, ed ivi sarà custodita fin’ al tuo ritorno.
TRA. Io non credo tanto; e se pur lo farai, sarai contro la tua condizione.
FAG. Perchè cagione?
TRA. Perchè uficio tuo è ingannar chiunque in te confida.
FAG. Stimi gli altri, come tu sei. Io vò a vestirmi.
TRA. Ed io a trattar col ruffiano, e sia presto per qualche mala ventura. Tic, toc.
ATTO III, SCENA iv
LUCRINO, TRAPPOLA, e TRAPPOLALUC. Non poterva esser altri, che tu, che ai tanta nimicizia con queste porte.
TRA. Ascolta, che t’ispedirò in due parole.
LUC. Con patto, che non s’abbia a parlar di Filesia, e che t’ispedischi tosto: che non ho bene quell’ora, che ti veggio.
TRA. Che danno ti feci io mai?
LUC. Che utilità mi facesti tu mai?
TRA. So, che’l mio padrone ti è stato d’utile.
LUC. In vedermiti attorno, par, che veggia la mia ruina.
TRA. Dici bene: che mai ti su più presso, che ora.
LUC. Sarai molto lungo?
TRA. Si bene.
LUC. Io ha fretta, e tu sei venuto per dir bugie.
TRA. S’io le dicessi, in aprir la bocca tu le conosceresti. Ma tu non m’ai fede.
LUC. Tu proprio il dici.
TRA. Non faresti ruffiano, se non fossi senza fede.
LUC. Ne tu servo senza bugie.
TRA. Eh no canchero.
LUC. Eh si canchero.
TRA. Ti mangi.
LUC. Ti spolpi.
TRA. Ascolta, ho da trattar teco cosa di’importanza.
LUC. Ecci oro, ed argento?
TRA. Mò si cava, e si battono li scudi.
LUC. A Dio, ho da fare.
TRA. Tu sei un fuggi guadagno.
LUC. Io non fuggo guadagno, ma fuggo te, dove non v’è guadagno alcuno.
TRA. Il mio padrone, dopo che ai tu detto, che volevi vender Filesia, è venuto in tanta smania, che ha posto sossopra questa città, per aver trecento scudi. Un suo amico, gli ha prestato un cassettino pieno d’oro, e di argento, ed altre gioje di valor di cinquecento scudi, e vuol, che lo tenghi in pegno per un mese; e se non se lo riscatta, che tu lo venda, e butti, come a te piace.
LUC. Non conosco io, che se venuto —
TRA. Per ingannatti.
LUC. Lo dici prima de mi, e sei venuto a trappolarmi, e farmi riuscir il pronostico addosso di questa mattina. Non so io, che poi esaminando tre testimoni, che’l castettino fu rubato, me lo torresti, e me faresti condennare per un ladro, e così perderei i danari, e la donna? Queste furberie le so prima, che nascessi: nè io son così ignorante, che mi lasci ingannar da te: ne io ho più bisogno di vederla; che da quì a poco comparirà il servo del capitan Dragoleone, che mi porta il resto del prezzo, ed io uscirò d’aver a far con te, che sei impestato, ed impastato di bugie.
TRA. Se mai vedrai questo servo, che ti porti i danari, vò, che mi cavi un’occhio; conosco ben il capitano, ch’è un meschino.
LUC. Perdi il tempo: consosco ben la furberie, che si fanno in questa città.
TRA. Giurerei, che se s’avesse a trovar il più cattivo uomo del mondo, non s’elegerebbe altro, che tu: così sovra tutti gl’inganni pensi a quello, che non pensano i cattivissimi. Tu ladro. tu senzaa fede, tu ruffiano: e se s’avessero a castigar tanti vizi in un’uomo, bisognerebbe far un’altro inferno per te.
LUC. Perdi il tempo, per ingannarmi.
TRA. Ti contenterai sì: sei persone ricchissime ti faranno sicurtà, che Arsenio fra un mese tii paghi trecento ducati.
LUC. Io non vò lite, non vò perder la mia roba fra scrivani, procuratori, ed avvocati.
TRA. Se io fussi te, farei così.
LUC. E perchè io non son te, però non vò far così: io vò far, come voglio io. Ma chi è costui, che vien in quà da soldataccio?
TRA. E servo, ed è forestiero.
LUC. Vien verso me.
TRA. O canchero! Questo è il servo di Dragoleone. Olà chi cerchi? Domanda me, che te ne darò certezza.
LUC. Lassalo venir in quà.
FAG. Chi di voi potrà informarmi, dove abiti un ruffiano.
TRA. Te non informerò io. Non sta quì, sta lungi di quà: io te lo insegnerò.
LUC. Ho inteso dir ruffiano. Costui sarà lo servo del capitano. Trappola è tutto mutato di colore. O bene, or cerca trasv’arlo di quà. O là, o là, chi cerchi?
TRA. Cercava: or ora l’ispedisco.
FAG. Cerco d’un ruffiano.
LUC. Dunque cerca me.
TRA. Uomo da bene, in questa stradetta abita quel, che cerchi: vieni meco, che ti condurrò in casa sua.
FAG. Come puoi tu indovinar quello, che non t’ho detto ancora? All’aspetto mi pari un manigoldo.
LUC. Olà, chi domandi?
TRA. Un mio amico.
FAG. Tu respondi prima, che domandi.
TRA. E tu proponi prima, che parli. Questo è un mio amio, e lo conosco gran tempo.
FAG. Come conosci me, se or giungo in questa terra, nè tu giamai mi vedesti? Certo un ruffiano.
TRA. Sì, sì. Cerca un ruffiano, ch’abbia qualche puttana bella, che avendo portati danari freschi dalla guerra, vuol darsi sparsso con lei. Non è il servo del capitano, che pensi, nò.
FAG. Non ti ho detto questo io. Dico, che mi manda il capitan Dragoleone. Che vuoi tu da me, che mi tocchi dietro, mi calchi i piedi, e mi accenni?
TRA. Chi ti tocca? Chi ti accenna? Mi pari un’asino tu.
FAG. Son più astuto, che non pensi, che conosco l’astuzie tue.
LUC. S’ è accorto il furfante, che questo è il servo del capitan Dragoleone, che viene a torsi Filesia, e gli dispiace, che non mi può ingannare. Mira quante bugie, come si rode, come smania.
TRA. Non sei tu il servo del capitan valoroso? Il cui nome ho in bocca, ma non mi sovviene: ajutami a dirlo.
FAG. La forca, che ti’appicchi. In bocca ai un di quei, che giacciono al mio molo intorno la torre della lanterna. Ma che
vuoi tu da me, che non mi ti pollo levar d’intorno, e mi accenni?
TRA. Chi t’accenna, asino?
FAG. Sì, che tu mi accenni.
LUC. Sì, che accenni, sì: l’ho veduto io con gli occhi, con le mani, e co’ i piedi. O trappola, non v’è guadagno per te,
lasciami far i fatti miei.
FAG. Certo, che voi sete quel, che cerco. Vi conosco alla ciera: vi veggio nel viso i trionfi del vostro mestiere. Se così si conoscessero le monete alla stampa, come voi, quando son false, niuno si lasciarebbe ingannare.
LUC. Non potrei usar l’arte mia, se non fossi tale.
TRA. Ascolta, forestiere.
LUC. Levati di quà col malanno.
FAG. A te porto un’ambasciata da parte del capitan Dragoleone.
LUC. A voi due daro la riposta.
FAG. Prima ti manda la mala ventura.
LUC. Questo presente sarà buono per voi.
FAG. Perchè i soldati, che stanno alla guerra non ponno mandar altro: che fra loro non ci è, se non morti, uccisioni, stroppi, e male venture.
LUC. Dove sono i danari? Dove la lettera?
FAG. Eccoli: che vuoi più?
LUC. Il segnale?
FAG. Eccolo.
TRA. Non vedi, goffo, che ti dà la baia; che prima si tocco dietro, e poi t’ha tocco il naso?
LUC. Tu frenetichi. Vieni dentro, e ti consegnerò la donna.
TRA. Son morto.
LUC. Non vedo, che frenetichi?
TRA. Ricordati, che t’ho detto questa mattina, che voleva prenderti alla trappola ora ti prendo.
LUC. Tu frenetichi.
TRA. Tu stimi costui, che sia mandato dal capitan Dragolenone, e questo è un’ nomaccio, che abbiam vestito noi da soldato, ed ordinato che venga da te con questi danari, acciocchè gli consegni Filesi.
LUC. Tu frenetichi.
TRA. Questa è una trappola ordita contro te.
LUC. Anzi contro te.
TRA. Oh come sei goffo!
LUC. Oh come sei ignorante! Conosco te meglio di te, e quanto pesi vivo, e morto. Mille di tuoi pari non ingannerebbono un mezzo me.
TRA. Un mezzo me inganna mille di tuoi pari.
LUC. Ecco i cento ducati, che mancavano al prezzo, del medesimo oro, del medesimo conto, e fattura; ecco la stessa borsa, quando mi sborsò i ducento: ecco la lettera, che mi manda il capitano: m’ha manifestato il segnale, che noi soli sappiamo, e non altri: questonon potevi saper tu, non cerco altro. Che rispondi?
TRA. Ascolta.
LUC. Non so altro.
TRA. Ti avvisai questa mattina, ch’oggi voleva ingannarti, ora ti’inganno, averti bene. Costui è altri, che tu stii, e noi ti rubiamo Filesia: ti consiglio a non crederegli, che tutto è falso.
LUC. Ah, ah, ah, rido della tua dapocagine.
TRA. Ah, ah, ha, rido della tua castronagine.
LUC. Fammi il peggio, che sai.
TRA. Te l’ho fatto.
LUC.Tho, tho, proprio per dove esce l’anima a gli appiccati.
TRA. Ti ci ho tenuto gran tempo, e t’ho evacuato dove meritano i tuoi pari.
LUC. Costui è stata la mia ventura.
TRA. Costui è stata la tua sventura.
FAG. Capitano ha fretta, e costui non sarà per finir tutt’oggi. Di gratia, speditemi.
LUC. Sei bello, e spedito, vieni dentro, e pigliati la tua donna. Gracchia a tuo modo, e scoppia della rabbia.
ATTO III, SCENA v
TRAPPOLA soloOr chi non ridisse a crepacuore? Che mentre egli si pensava ingannar’ altri, egli restava ingannato; e quanto più pensava porti in sicuro, più si trovava tradito. Mi faceva rider quel ribaldone del parasito, che si mostrava così goffamente malizioso. Orsù il disegno prima composto è rinscito, ed ha conseguito il suo effetto: benedetti sudori, e la fatiche, che vi sono spese. Or si, che mi dà animo di passar innazi con più franchessa. Al fin direzzeremo un trofeo alla bugia, ed alla fraude. Se il parasito condurrà la donna a casa, non sarà poco, che per esser golosissimo, se il ruffiano gli darà ben da mangiare, sarà uomo di scoprirgli la trappola, e lo stravolgerà contro noi, ed aremo ordita la trappola contro noi stessi, e saremo stati ministri del nostro male: ciò mi fa star con l’animo un poco dubbioso. Bisogna partirmi, che il ruffiano non mi veda, e lo ponga in sospetto.
ATTO III, SCENA vi
FILESIA, e FAGONEFIL. Ahi disleale, ed iniqua fortuna! Pensava pur, ch’avendomi tre, e quattro volte calata nel più basso dela tua rota; ch’or ti toccaste a sollevarmi: ma vana è stata la mia speranza, che calando sempre di cerchio in cerchio, mai non finisce il mio precipizio. Tutti ti chiamano instabile, solamente per me sei stabile, e serbi meco sempre un medesimo tenore. Qanto mi sei parca di quel, che desio, tanto prodiga di quel, che schivo. Ma fa quanto vuoi, opera quanto puoi, che non sarai tu così costante in offendermi, ch’io altrettanto non sia costante in soffrirti. Eccomi in poter d’un vil sodato, ecco perduta la mia onestade: ed io potrò più vivere? O cuor mio duro, ma più tosto dirò, che non ho cuore, che scoppierei.
FAG. E’ più bella, che non stimava; e parla per quinci, e quindi. Bella fanciulla, disgombra le tenebre de’ tuoi affanni, e non turbar la tua bellezza con tante doglie.
FIL. Averti non portarmi in luogo me ch’onesto, che mi torrò più tosto la vita con le mie mani, che soffrir, che mi sia macchiata, la mia onestà: me l’ho serbata da tutte l’ingiurie della fortuna per tanti luoghi insino adesso, e me la ferberò fino alla morte.
FAG. Una donna, che sistrova ne’termini, dove tu se, bisogna fare, e lasciarsi fare qualche cosa contro la sua voluntà: e quando la buona sorte te corre in grembo, saperla conoscere, ed afferrarla a due mani, che non scampi.
FIL. Se ben mi vedi misera ed afflitta, non tengo pur sì poco contro dell’onor mio, che non patisse mille morti più tosto, che patirne un minimo pericolo.
FAG. Costei muove riso, in ogni luogo avrà fatto mille bordelli, e sta insino a gli occhi nel chiasso, e predica l’onesta.
FIL. L’onestà è la vita della donna, e perdendola si devrebbe vergognar d’esser viva.
FAG. Bisognerebbe vergognarsi d’esser donna più tosto. Ma io ho burlato teco: se tu mi dai una buona mancia, ti darò una buona nuova.
FIL. Che mancia ti può dar la più povera donna del monda? Nella mia onesà son raccolte tutte le mie ricchezze, dell’altre sono ignuda, come me creo la natura
FAG. A voi donne vi ajuta la natura, che mai vi mancan danari: e quando tutte le mercatanzie falliscono, le vostre son sempre verdi: non ponete mai mano alla bursa, che vi manchino dieci scudi.
FIL. Io non ebbi mai un quattrino in mia vita.
FAG. Devi esser troppo liberale, troppo larga.
FIL. Ma dimmi, che buona nuova è quella, che mi volevi dare?
FAG. La miglior, che sapresti desiderare.
FIL. Qual mai sarebbe tanta, che bastasse a trarmi dal profondo delle miserie, in che mi trovo?
FAG. Ti porrò in braccio al tuo disiato Arsenio.
FIL Io non credo a cosi lieta novella. Son così usa, a soffrir disagi, che se la fortuna volesse darmi qualche sorte di contento, bisognerebbe trovare un’altro cuore, che bastasse a capirlo. Son posta in bando dalle speranze, perchè lo sperar; che ho fatto insino adesso, mi fa conoscere, che quanto spero è tutto vano.
FAG. Ma dimmi, come potrà non esse disonesta questa tua onestà, che per venir in questi paesi, sei passata per tanti luoghi, e per tante mani, ch’è impossibile, che da alcuno non ti sia stata data la stretta?
FIL. Io fiu tolta da Barcelona, essendo piccina, e fui portata in Barberia, e donata alla reina di Fessa. L’ho servita molti anni: mi riscattò poi questo ruffiano, il quale ha tenuto conto di me, quanto avrebbe tenuto di sua figlia, se ben non per altro, che per trarne pur guadagno.
FAG. A qual riena fusti donata?
FIL. Alla reina di Fessa.
FAG. O pota di mia madre, questa è un gran reina!
FIL. Reina di un grandissimo regno.
ATTO III, SCENA vii
DRAGOLEONE capitano, e GABRINADRA. Tu dunque sei la mia vezzosa, e graziosa Filesia?
GAB. Io son Filesia, sì.
DRA. Degna certo di farne una giostra sotto le finestre, e romperci una dodicina di lancie.
GAB. Io son Filesia, sì.
DRA. Ho disiato Filesia: perch’è bella come una Venere, e giungendosi meco, che son un Marte, ed ancor bello, avessimo a produr Cupidini bellissimi, e valorosissimi.
GAB. Io son Filesia, e son’ ancor bella la parte mia.
DRA. Tu bella! Vero ritratto del fistolo, del mal di San Lazzaro, e della peste, che faresti paura alla fantasime.
GAB. E tu volto di stregone, che non sò a chi non faresti muover lo stomacho in voderti.
DRA. Io ho fatto più piaghe con gli occhi, inamorando le gentildonne, che non ho fatto con la spada, e col mio viso d’angiolo.
GAB. Di Satanasso dell’Inferno.
DRA. Mira, che incontri vengono a questo cervello bizzarro mio! Tu vecchia sozza. Sappi che m’incapitano, e scapitano, come a me piace; e ti giuro a fe di cavaliere, che se non temesse oscurar i miei fatti illustri, e gloriosi di aver preso tante città, soggiogati principi, e debellati re potentissimi, con imbrattarmi le mani del sangue della faccia delle faccia delle donnicciuole, io ora ti taglierei il naso, e me lo porrei per cimiero sopra le mie armi.
GAB E tu sappi, che m’infemino, e sfemino, come a me piace; e se mi fai salir la senape al naso, ti menerò ben la pelle.
DRA. Tu certo non devi saper, chi son’io?
GAB. Che so io, chi sei.
DRA. Va, dimandalo, che lo saprai. Non vò, che tu l’intenda da me. Io sono lo struggimondo, e mi beverei l’inferno, e tutto il mondo come un uovo fresco: e gli uomini armati tremano nel vedere il mio volto irato, e minacce vole; e tu, non so, come non diventi paralitica per lo tremore. Trovati un altro alloggiamento per l’anima tua, che ne la vò privar di questo.
GAB. Se ben costui fà certo volto da inghiottir le genti, a me par un pallon gonfio di vento, ed un valissimo coniglio.
DRA. Son più fiero in fatti, che non mostro nel volto; e son molti giorni, che ho fatto dieta per satiarmi a mio modo di sangue umano. Tocca qui il core, senti come sbatte di rabbia: combatterei col diavolo, col bianco, e nero; e guai a te, se te la sfogo contro.
GAB. Tu non mi torrai dinanzi, se non ti pesto bene.
DRA. Arme, arme, allacciatemi l’elmo. affibbiatemi la corazza: o là, cingetemi la fulminea, imbracciatemi lo scudo, datemi la mia mazza ferrata: su, su speditevi tosto, a chi dico io?
GAB. Con tutte queste tue armi non sarai buono ad uccider mi un pidocchio addosso.
DRA. Alle donne la lingua è lor’ arme, e danno più stoccate, ed imbroccate in un punto, che un esercito, quando viene alle mani.
GAB. Io vò scalzarmi li pianelle, e pestarti il volto, come si pesta una salsa.
DRA. Ah vecchia poltrona. Mano a spade, staffieri. Non accostar ti dico. Torrò un bastone, e vedrò, se ai l’ossa dure, o tenere: fatte a dietro furfante, traditora: fermati, io dico.
GAB. Non vò fermarmi, finchè non t’abbia concio a legge d’asino.
DRA. Tu non vuoi fermarti, no?
GAB. No, no.
DRA. E tu dà quanto vuoi, vò che tu obbedisca: son’uso a farmi obbedire: stancherai pure.
GAB. Sono stanca, e se non lo acconciava a mio modo, non me lo toglieva da piedi.
DRA. Orsù poi che ho fatto sempre profession di vincer altri, e non altri me, lo or vò vincer me stesso, vò soffrirlo. Ho fatto più che Orlando in raffrenar tanto me stesso, di non por mano alla spada contra una feminuccia. Leonetto, certo costei mi deve aver fatto qualche cosa, deve portar qualche oratione addosso, poiche mi ha legate le mani in un certo modo, che non ne ho fatto cento pezzi. Vedi quell’uscio? Quella è la casa del ruffiano. Accompagnami prima in galea, poi torna è digli, che se non mi porta Filesia insino alla galea, che lo farò sbalzar per aria con tutta la casa. Mi serverò questa audacia per un’altra volta.
GAB. Vò andarmene a casa: l’uscio è chiuso: feci errore a lasciargli le chiavi, e non portarmele meco. Batterò se fosse vi forse. Tic, toc.
ATTO III, SCENA viii
FILESIA, e GABRINAFIL. Chi dimandate? Chi sete voi?
GAB. Or questa è bella,una forestiera dimanda alla padrona della casa, chi sia! Di tu a me, chi sei? E che fai qui? Chi ti ci ha menata?
FIL. Il padron della casa, che sarà qui tosto.
GAB. La padrona son io. Tu devi esser la galantissima puttana di mio marito: tu mi togli il mio pasto, ed io tutto il giorno a bocca aperta digiuna?
FIL. Avvertite a parlar, come si deve, ch’io non sono quella, che pensate.
GAB. O mio galante marito! Questa è la scusa, che voleva compiacere ad uno amico, per inviarmi fuor di casa, e trastullarsi con altra, ed io sciocca asina lo creddeti, e forse che non mi sava fretta. A questo modo eh? Non su, nè sarà mai la peggior femmina maritata di me, che dopo avermi consumata la roba, per empirsi quel suo ventraccio, mi porta ancora le puttane in casa. Puttana in casa mia eh? La mia casa è fatto serraglio delle puttane di mio marito, come se fosse il gran Turco. Ma io ne farò le mie vendette.
FIL. Io son altra, che voi non pensate, vi dico.
GAB. Mirate, a che marito ho posto in mano tutte le mie cose! A chi ho dato cinquecento ducati di dote! Ho speso, per ricevere ingiurie. Ma non la passerà alla fè, come si crede: farò correre tutte le vicine alle grida: porrò tutta questa città romore: non vò avvezzarcelo, perchè ogni giorno mi farebbe peggio.
ATTO III, SCENA ix
FAGONE, e GABRINAFAG. Oimè, sento la voce di Gabrina, che grida come spiritata: pensava avermi tolta tutt’ oggi da dosso questa mosca canina, ed è tornata presto: arà trovata Filesia in casa, e non le ho detto nulla di questo prima. Si penserà qualche mia puttana. Son rovinato affatto.
GAB. Scontenta me, misera me!
FAG. Anzi scontento, e misero me! O Arsenio, o Trappola, in quanti travagli m’avete posto.
GAB. Ad altri il fiore, a me la faccia eh?
FAG. O fosse appiccato l’uno, e l’altro, che mi ci hanno fatto incorrere. Ma vedrò, se la posso acchetare con buone parole. O mia moglie, tu sia la ben ven venuta. Sei tornata molto presta.
GAB. Più assai di quello, che desideravi.
FAG. Stai molto turbata.
GAB. E tu non sai di che?
FAG. Non certo, vengo ora di fuori.
GAB. Chi è quella donna, ch’è in casa?
FAG. L’ai tu veduta?
GAB. E come.
FAG. E’ altra di quel, che pensi.
GAB. Mi tenti, che parli eh?
FAG. Parla, moglie mia.
GAB. Qualche tua innamorata?
FAG. Sei molto lontana dalla verità.
GAB. Chi e dunque quella? Che respondi?
ATTO III, SCENA x
CUOCO, FAGONE, GABRINA, e FILESIACUO. Eccoti le robe, che ai comprate.
GAB. O gran banchetto è questo, che fai! Basterebbono a dieci persone tante robe. Non lo potevi fare a me ancora?
FAG. Troppo arei che fare.
GAB. Devresti levar l’amor da tutte, e porlo a tua moglie.
CUO. Ditemi, padrone, in quello banchetto mancieranno amici, o nemici tuoi?
FAG. Perchè?
CUO. Perchè mangiandoci nemici, condirò le vivande così saporite, che mangieranno tanto, che creperanno.
FAG. Con che le condirai?
CUO. Col petosiride, con l’astralgo, con potamogetone, e col clinopodio.
FAG. Il canchero, che mangi te, e le tue erbe.
CUO. Perchè non son’io di quei cuochi, che non sanno se non cuocer malve, biete, bliti, e ortiche. Acconcierò i polli, i piccioni, e i capponi senza ossa, che te gli porrai in gola, e gl’inghiottirai senza fastidio, come fossero salcicchie.
FAG. Orsù vatti con Dio.
CUO. Nè son’io di quei cuochi, che son tanto pigri, che più tosto ti strangola la fame, che sia accesso il fuoco. Io apparecchio con tanta prestezza, che solo ponendovi le mani sovra, son belle, e cotte. E già vi potrete sedere a tavola, perchè sono acconcie già.
FAG. Vatti con Dio.
CUO. Questa è quella giovane, a cui apparecchiate il banchetto? O che faccia di latte, o che labra di rose! O che boccuccia ghiotta da tortene un pasto, e leccharsene i diti, e succhiarsene la labra, anzi da non vedersene sazio mai!
FAG. Ben bene.
CUO. O che gentil’aria! O come è manierata rosa, e vistosa, più bella assai di quella che dicevi! E tu savio, che avendo una moglie vecchie, fastidiosa, ed indiavolata, te l’ai trovata fresca, e tenerina.
FAG. Eh vatti con Dio, ti dico.
GAB. Lascialo parla, se vuoi.
CUO. Che l’avevi più in odio della morte.
FAG. Chi t’ha detto questo?
CUO. Tu stesso.
GAB. Non bisogna accennarlo: me n’accorgo ben’io sì.
CUO. E disiavi, che s’avesse rotto i collo.
FAG. Io a te questo?
CUO. Tu a me per certo, e che l’avevi mandata fuor di casa con non so che iscusa.
FAG. Vattene con cento diavoli, ti dico.
CUO. O che buona robba!
GAB. Assai cattiva sei tu.
CUO. E disiavi, che fosse uccisa, o si rompesse il collo per le scale.
GAB. Uccisa io?
CUO. Non tu, ma sua moglie.
GAB. Io son sua moglie, e sia uccisa da vero, se non fo le mie vendette con un bastone.
CUO. Che colpa ci ho io, vecchia arrabbiata, che ti possi fiaccare il collo.
GAB. Deh se ti posso io giungere.
FIL. Oimè, oimè, dove mi cacci?
GAB. Da casa mia.
FIL. Dove vuoi, che vada
GAB. Al bordello, ove abitano le pari tue.
FAG. Oimè non m’uccidere, che mi parto.
FIL. Che ai meco, ignorantaccia?
CUO. Ecco il disutile, nato solo per mangiare, e bere.
FAG. O che sia squartata. Se ti pongo le mani addosso. Quando finirai?
GAB. Aspetta, che questa è l’insalata.
FAG. O che maledetto pasto! Non più, son sazio, ho sconcio lo stomaco. Ne ti basta, che batti me, ma mi rompi il fiasco ancora del vino, e calpestimi le robe? Perchè non m’ai più tosto rotta la testa mia, e sparsemi le cervella? Se m’ avessi fatto spargere il sangue, non aresti potuto farmi maggior dispiacere. Che si spenga la razza delle tue pari. Mi sazierò almeno delle reliquie sparse.
Atto IV