ATTO II, SCENA i
CALLIFRONE solo

Sia ringraziato Iddio, ch’Arsenio è già imbarcato, e va di buona voglia: la nave ha fatto vela, e sarà lungi ormai cinque miglia. Eccomi fuor d’ogni tema, e d’ogni sospetto di Trappola, che mi ha tenuto l’animo travagliato tre anni, ed oggi più che mai, poichè avvisato me l’ave, e minacciato prima. Egli è furfante, ed astuto al supremo grado, e da uscir d’ogni gran mare. Or facciami il peggio, che sa. Questa sera io mi riderò di lui, e sarà più vero il pronostico, che ho fatto a lui, che quello, ch’egli ha fatto a me.

ATTO II, SCENA ii
TRAPPOLA, ed ARSENIO

TRA. Che dite, padrone? Non sono io il gran Trappola? Non cominciate a veder le mie pruove? Io adocchiato di lontano vostro padre, che ritornava dall’avervi imbarcato, con una fregata vi sovragiunsi; e con una verisimil iscusa, che vostra madre, e fratello eranoarrivatiin Napoli da Barcelona, e che sarebbe stato vano il viaggio, vostro padre vi richiamava in Napoli, vi feci sbarcare, e v’ho qui condotto.
ARS. Fin’adesso va ben la practica, e bisogna che la conduchiamo a fine, e faccia Iddio, che sortisca secondo il desio. Orsù pensiamo, come libereremo Filesia dal ruffiano, e se mio padre m’incontra, come risolverommi?
TRA. Liberar filesia da man di Lucrino sarà facile. Ecco la lettera, dove il capitano Dragoleone avvisa, ch’oggi manderà un suo servo detto Dentifrangolo con cento scudi per saldo di trecento per lo prezzo, e con un segnale secreto fra loro li consegni Filesia. Io non mi partirò oggi dinanzi la casa sua, finchè non vedrò comparir il suo servo, lo condurro ad un’ amico, che finga il ruffiano, e recevuti i cento ducati, e dato il segno, gli daremo una donna in cambio di Filesia, e subito daremo quei danari, il segnale, e la lettera, ad un’altro amico, overo all’istesso vestito da soldato: lo manderemo con tutte queste cose al ruffiano, ad qual senza dubbita subito consegnerà Filesia, e così verrà in man nostra. Che dite ora? L’inganno, e la trappola non è sottilissima, e verisimile?
ARS. Non s’avria potuto immaginar meglio! Sai miracoli. Ma dimmi, come il capitano Dragoleone vedrà quella donna, che non è Filesia, non verrà subito al ruffiano, e farà gran rumore?
TRA. Questo non fa nulla a noi: gridi, bravi, e ponga sotta sovra il mondo, Filesia è in poter nostro; e quanto più s’ adererà col ruffiano, noi tanto più rideremo.
ARS. Non poteva inventarsi la più bella trappola dall’eccellentissimo Trappola, e da ora conosco, che non saran vane
le speranze concepute di te, o Trappola d’oro, o Trappola di muscio.
TRA. O quanti titoli!
ARS. Ti prometto, che sarai sempre a parte di ogni mia felicità, e ti farò sempre grato, ed averò memoria di tanto beneficio, mentre sarò vivo. Arò più obbligo a te, che a mio padre: perchè egli mi manda a morir in Ispagna, e tu mi fai vivere in Napoli; egli cerca privarmi di Filesia, che è il mio cuore, e l’anima ancora, che non me la diè mio padre; egli m’ espone a’pericoli del mare, e tu mi fai star in letto con la mia donna.
TRA. Dubbito, che l’avarizia, che ormai muore in vostro padre, poi non ringiovenisca in voi.
ARS. Ti darò mille segni della mia liberlità, e mi riservo a dimonstrarti, che nacqui nobile.
TRA. Di queste promesse me ne avete fatto le migliaja.
ARS. Segui la terza. Come arò risolvermi se m’incontrerò con mio padre? E se per sorte andasse con Filesia?
TRA. Or quesa sì, che sarà bella, farà una commedia da dovero. Non vi ha detto vostro padre mille volte, che ave un’ altro figlio detto Lelio in Barcelona, che rassomiglia tutto a voi, e che appena egli, e la moglie discernevano l’un dall’altro, e che ora e maritato con Donna Eufragia? Incontrandovi con lui, fate vista di non conoscerlo, parlate spagnuolo (che so, che ne parlate benissimo) e se Filesia ne parlerà due parole, non sarà male, (che se mal non mi ricordo, mi ha detto, che vien da razza spagnola) e dite, che siete Lelio vostro fratello, e che Filesia è vostra moglie, detta Donna Eufragia, e che sete venuti da Barcelona in Napoli per veder vostro padre, e così sarete ricevuti in vostra casa con la vostra Filesia, con grandissime carezze.
ARS. Ah, ah, ah, non si averia potuto immaginar meglio; e gia me par’esser su’l fatto, e ne sento tanta docezza, che mi scorre per tutte le vene, e non capisco in me stesso. Non si potrebbe pensar cosa più a proposito, e se qualche cosa per impensata se iagura non succede in contrario, riuscirà bella, e netta. Di grazia non perdiam tempo. Ma chi saranno costoro, che fingeranno il ruffiano, e’l servo del capitano?
TRA. Pensiamoci.
ARS. Sarebbe a proposito Gismondo, quel gentiluomo mio amico.
TRA. Non vuol esser gentiluomo: bisogna esser furbo, destro, astuto, sollecito, nato ed allevato nelle baratterie fra marioli. Abbiamo a far con Lucrino, ch’e uno gran barro.
ARS. Fa come vuoi: non voglio essere io contra il tuo parere.
TRA. Stimò, che Fagone parasito sia molto a proposito, anzi a propositissimo, che, oltre che è sufficiente della sua persona, ha una moglie, ch’è più furba di lui, poi la più brutta strega, e contrafatta, che sia nel mondo, e questa potremo consegnare al servo del capitano in cambio di Filesia: e quando il capitano penserà d’aver’ ad abbracciar Filesia, si troverà aver abbracciato una strega, ed il meglio è, che sforzeremo costui a far quanto vogliamo con dargli ben da mangiare.
ARS. Non potevi apponerti meglio.
TRA. Ma qui bisognano almen dieci scudi alla mano, per darglieli subito.
ARS. Eccoli, me l’ha dati mio padre, partendosi da me, per alcuna stravagante necessità, che avesse potuto occurrermi nel viaggio.
TRA. O bene! Ch’era necessario perder tempo per ritrovargli. Bisogna or’ andare alla giudeca, e trovar vesti per lo ruffiano, e per lo soldato, e per voi da viaggio, che se questa trama l’occampagneremo con apparenza di belle vesti, le daremo molta riputazione.
ARS. Come saremo, per dargli un pegno?
TRA. Ecco qui un’anello di ottone indorato, con un vetro tinto, con una doppietta tinta, che pare un rubino, ha mostra di trenta scudi, e non vale un carlino: ponetevelo nel dito, mostrando di farne molta stima, forse lo riceverà per pegno.
ARS. O bene!
TRA. Or qui non bisogna altro, che diligenza: perchè le cose per ben consigliate, che sieno, non facendosi con, diligenza non sortiscono il fine loro, ne si fa nulla, perchè ogni cosa riesce, come la diligenza usataci. Voi fratanto nascondetevi in questi vicoli, che non v’incontri vostro padre: io andrò per le vesti, per trovar Fagone. Ma eccolo, che viene: certo il negozio sortirà lieto fine, perchè veggio così buon principio. Voi andate pur là, dove abbiamo deliberato, ch’io cercherò adescarlo con un buon pasto.

ATTO II, SCENA iii
FAGONE parasito, e TRAPPOLA

FAG. Questa notte dormendo mi sognava, che notava in un mar di brodo grasso, e che ad ogni bracchiata incontra va ravioli, e maccheroni grossi, e lungi un palmo l’uno, che sdrucciolavano giù da uno scoglio de cacio Parmigiano grattugiato, e di passo in pasto l’onde buttavano capponi lessi, galli d’India cotti, con pezzi di vitelle, che parevano di latte; ed io, come una balena, che trangugia le navi, così trangugiava vitelle, e galli d’India, e maccheroni a quattro a quattro, come ciriege. Oimè, che come mi svegliai, mi trovai aver digesto, e’l ventre voto, come una vestica gonfiata.
TRA. O morto di fame.
FAG. O Dio, che cattivo augurio è questo? Dalla mattina son chiamato, con sì odioso nome: non mi mancherà oggi crepar della maledetta fame. Ma perchè non può chiamar, se non me? Gli vò rispondere. Chi mi domanda?
TRA. Fagone, non mi vedi?
FAG. Se avesse un’occhio dietro, t’arei veduto.
TRA. Così ti fosse cavato con un corno.
FAG. Lo teneva chuiso per la polvere, ma se m’avessi accennato col naso, t’arei sentito.
TRA. Come stai?
FAG. Come proprio m’ai chiamato: nè ho un cavallo addosso, nè in casa, nè so dove trovarlo per desinate, di che mi vengono i sudori della morte.
TRA. Tu ci ai posto i denti co’l morirti di fame, e così ci porrai la barba bianca. Ma se tu canti, col trattenimento ti passerà.
FAG. Che cercavi da me, che gridavi così forte?
TRA. Avea fretta, e voglia di ragionarti.
FAG. Di presto, che vuoi?
TRA. Abbi un poco di pazienza.
FAG. La rabbia della fame mi toglie la pazienza.
TRA. Vorrei un consiglio da te.
FAG. Io non sono nè consigliere, nè dottore.
TRA. Di quel, che cerco, tu ne sei più che dottore. Vorrei invitarti a desinare meco questa mattina, e per ricerverti a tua soddisfazione, che mi consigliassi, che t’ho d’apparecchiare?
FAG. E che stimi, che sia alcuno di questi sparecchia tavole? No, no. Mi contento di poco, due paja di capponi lessi, due d’arrosti, un petto di vitella tenero, un par di galli d’India, due rotola di salvaggina, quattro pasticci alla francese, buon formaggio, e via per una collazaionetta persta presta.
TRA. Ci vorrei aggiugnere un piatto di maccheroni.
FAG. Tu l’intendi.
TRA. Ed un’altro di lasagne.
FAG. Tu sai troppo.
TRA. Due fiaschi di greco, e due altri di lacrima di Somma per darti più gusto.
FAG. Tu l’indovini.
TRA. Una dodicina di polli, ed una torta per acconciabocca.
FAG. Tu par, che mi sia uscito dal ventre, così fai ben quello, che si la di là, e conosci i bisogno.
TRA. Par dirtela, io vò cercando un’ astuto, un furfante, un che abbia il generalato de’marivoli.
FAG. Non bisogna cercarlo, perchè sei tu stesso, o mancando tu, sarò io; che non credo al mondo siano più cattivi: se non vuoi servirti di te, l’ai dinanzi.
TRA. E che fosse ladro assassino.
FAG. Questo l’imparai con l’a, b, c.
TRA. Che fosse spergiuro.
FAG. Io propongo un pasticcio a tutti gli spergiuri del mondo.
TRA. Che sapesse fingere un tristo.
FAG. Non bisogna fingerlo, perchè ci sono.
TRA. Che sapesse dir un bugia.
FAG. Le bugie imparai in corpo di mia madre, nacquero al nascer mio, e si sono allevate meco. In mirar in terra, ne so nascer mille colorite, e dipinte; e farò, che il vero resterà vinto dal falso; anzi parranno più vere della verità. Difficil cosa mi sarebbe dir un vero. Orsù ti servirò io.
TRA. E ti basta l’animo?
FAG. Me soverchia anco.
TRA. Il mio padrone Arsenio s’è innamorato d’una donna, che sta in poter d’un ruffiano avaro, ed egli non ha danari, e si strugge di desiderio di fargli una burla per torlaci, e vorrei.
FAG. Travestir alcuno.
TRA. L’intendi.
FAG. Che andasse al ruffiano sotto nome d’alcun’ altro.
TRA. Sai troppo.
FAG. E con qualche bugia, o segnale.
TRA. L’indovini.
FAG. Sì facesse dar quella donna, e l’ingannasse —
TRA. Tu par, che mi sia uscito dal cuore, così ben sai quanto desidero.
FAG. Per dirti il vero, da una parte io non vorrei pormi a questi travagli, dall’altra parte la gola mi scanna, e mi crocifigge: ci ho una rogna, che è forza, che me la gratti: l’una mi punge, l’antre mi unge.
TRA. Vo, che tu proprio m’ajudi in quesa surberia.
FAG. Non sarà questa la prima, nè l’ultima.
TRA. M’ai ciera da riuscirne.
FAG. Ne ho l’opere, che importano più.
TRA. Desidero opera da te, com’ è la fama.
FAG. Anzi opera, che supererà la fama.
TRA. Bisogna farla da uom’ vivo.
FAG. Farò il possibile, e tenterò l’impossibile.
TRA. Abbiamo bisogno ancora d’una donna astutissima; e se non erro, stimo, che la tua moglie sarebbe a proposito.
FAG. Or questo no. Mi vorresti far diventar Baccho col corno in fronte, e col becco dietro. Io non prestai mia moglie mai, per gir a corneto.
TRA. Non a questo effeto in vero. Tu sai, ch’è tanto vecchia, che contende con l’antichità; e poi è bruittissima.
FAG. Narrami la burla alla distesa.
TRA. Te la dirò in casa, e quanto ai da operare, e dove stieno i colpi maestri.
FAG. Questi insegnerò io a te. Mia moglie sarebbe molto a proposito, perch’ è brutta, e non temo, che mi sia fatta vergogna, scaltrita, e peggio, che vogliamo. Ma sta il fatto a disporla, che ne voglia servire, perch’ è la più fastidiosa, sospettosa, ed indiavolata femmina del mondo.
TRA. Dammi la mano, per questa sè ti prometto, che fatta l’opera ti farò un’altra, buona mancia, e ti darò un pugno sul petto, che vò si senta ilrumor de scudi un mezo miglio.
FAG. O santa fede! O beati pugni!
TRA. Ma avverti, che vogliam desinar teco. Va, e disponi la tua moglie, che fra tanto andrò per le vesti, e te le recercho a casa.

ATTO II, SCENA iv
GABRINA vecchia moglie, e FAGONE

GAB. Che stimi, che sia sorda, che gridi così forte? Che ti piace?
FAG. Tu lo sai, che mi piace; capponi, galline, polli, e salciccioni.
GAB. Questi piacciono a me ancora.
FAG. Moglie mia cara.
GAB. Qualche cosa bolle in pentola, che tu non sei solito dirmi queste parole, se non quando mi vuoi far qualche burla.
FAG. Mi bisognerà contrastar buona pezza con costei. Orsù moglie, quando ti vedrò un poco allegra.
GAB. Chi può star’allegra con te, ch’ogni giorno mi dai nuove cagioni di dolermi, che per empirti questa tua golaccia, ed andar alle puttane m’ai impegnate le vesti, insino alla camicia?
FAG. E s’io non mi servo delle robe de casa, per empirmi la gola, per chi ho da impegnarle, per lo re, o per l’ imperadore?
GAB. Oltre che sono la peggior femmina trattata del mondo.
FAG. Non so, perchè ti lamenti di me, che ti ho trattata sempre più che madre, più che sorella.
GAB. Se voleva esser trattata da madre, e da sorella, non bisogna partirmi da casa mia, dov’ era mia madre, e mia sorella; ma io mi son maritata per quello, che si maritano l’altre donne.
FAG. Non dormo teco ogni notte?
GAB. E dormi da vero, da che ti corchi insino a vespro, è non ti risveglierebbono le bombarde; ed io vorrei che vegghiassi meco, e non dormissi.
FAG. Io son di natural così freddo.
GAB. Se tu eri di natural così freddo, che proposito ammogliarti?
FAG.Tu perchè mi volesti?
GAB. Perchè mi dicevano, ch’eri ricco, e ben fornito di masserizie di casa, e dal primo giorno me l’auresti tutte poste in mano, poi mi sono trovata ingannata: però non si dove creder mai, se non quello, che si tocca con mano prima; se so più di fama, che di frutto.
FAG. Non è per lo poco frutto, ma più tosto per la gran bocca che ai, ed apri, per inghiottirlo.
GAB. Dio m’ha fatto così di natura.
FAG. Però a gran signora picciol presente: pigliane il buon’amore.
GAB. Ma io dovrei fartene patir la penitenza.
FAG. Che penitenza?
GAB. Farti portar cornar in capo per quattro cervi.
FAG. Dio voglia, che non le porti per otto. Ma da oggi innanzi to vò servir, come vuoi.
GAB. Vorrei, che avessi poche parole, e più fatti.
FAG. Fo, quanto posso.
GAB. Menti per la gola, che non ci lasci bordello. E come si può mangiar minestra grassa, quando l’unto va fuori?
FAG. Sempre canti la medesima canzone: sei di condizione così fastidiosa, e ritorsa, che stai sempre incagnita, che per non cercar un servizio a te, me lo so con le man proprie piu tosto.
GAB. Il mal di matrine è, che mi fa star così. Ma che ci è di nuovo?
FAG. Ascolta.
GAB. Ascolto, che tu dica.
FAG. Vedi questi danari?
GAB. Dammeli: perchè non me li dai? Che possa dispegnar la mie robe, e tormi questi stracci da dosso.
FAG. Sempre stai tu apparecchiata a ricevere, non ti satiarebbe un mulo carico d’oro: se vuoi servir un’amico per due ore, n’ari la parte tua.
GAB. O sfacciato, furfante! Or, che non ai altro che vender, vorresti vender la moglie.
FAG. Taci, se vuoi.
GAB. Ti contenti delle corna d’oro eh? Gentiluomo di corneto, bell’onore!
FAG. Quello è più onorato, che ha più da mangiare, ed ha sempre il ventre pieno.
GAB. Sarai chaiamato presta mogliera.
FAG. Mi chiamino, come si vogliano, pur che non mi chiamino morto di fame. Io son nato per mangiare, e non voglio vivere, se non per bevere: in questo mondo non ci ho a far altro, e se non avessi a mangiar empre, vorrei rientrar in corpo di mio padre, che mi pisciasse in un pisciatojo. Ma io non l’ho detto, che s’abbiano no a servir di te disonestamente; che già sei vecchia.
GAB. Vecchio sei tu, che io non passo ancora i trent’ anni.
FAG. Senza le notti.
GAB. Quando mi maritai teco, non era ancor fatta donna.
FAG. E che eri maschio? Poi sei ancor brutta.
GAB. Mi par, che abbi dell’asino.
FAG. In somma come si viene a dir ad una donna, che è brutta, è il diavolo: ed il peggo è, che quanto sono più brutte, più vogliono essere stimate belle.
GAB. Son brutta vestita, ma in camica son un’angelo.
FAG. Dalle corna.
GAB. Ma non me lo dir più, che mi farai adirar da dovero.
FAG. O come sei colerica!
GAB. Tu lo sai, che son tenera di natura, e che subito mi risolvo.
FAG. Or sia bella, e di quanti anni tu vuoi, finiamola. vuoi tu guadagnarti questi scudi?
GAB. Vò saper prima, a che ho da esser adoperata.
FAG. Non ad altero, che a dir, che ti chiami Filesia, e sarai menata ad un capitano.
GAB. Io menata da un capitano?
FAG. T’ho detto, che non dubbiti d’essere svergognata.
GAB. Più tosto bastoneggiata. Ma voi non me la fregherete, ch’io non mi porrò a far cosa, che non riesca in forma.
FAG. Non dubbitar, t’ho detto.
GAB. Vò prima la metà de’ danari: questa festa non si può far senza me: e li voglio in mano in carne, ed in ossa.
FAG. Eccotene un pajo in persona, altrettanti n’arai dopo fatto l’effetto.
GAB. E de gli altri che ne farai?
FAG. Comprar robe da mangiare.
GAB. Già me lo immaginava.
FAG. Perchè dunque dimandarmene?
GAB. Ma non vorrei, che con questa sensa me inviassi suori di casa, e poi conducessi qualche puttana, e le donassi il restante de’ danari.
FAG. Andiam dentro, che ti’informerò del tutto.
GAB. Sì, sì, di questo saremo d’accordo.

ATTO II, SCENA v
POLEONE venditore, TRAPPOLA, ed ARSENIO

POL. So, che non aressi potuto incontrarti con miglior nomo di me, ben fornito d’ogni sorte di vesti, e di mille altre galanterie necessarie all’uso ordinario.
TRA. Padrone, ecco le vesti, che servono a voi, un cappello, un mantello da viaggio, ed un par di stivali.
ARS. Togli ora quelle del parasito.
TRA. Questo giubbone sarà a proposito, questa sto cappello col pennacchio, la gorgiera, le maniche di maglia, ed una spada, e coreggia, per finger poi Dentifrangolo servo di Dragoleone.
ARS. Per la moglie del parasito?
TRA. Questa roba di veluto cremesino, e questo manto di seta, per potersi coprir la testa, e la faccia.
ARS. Già abbiamo il bisogno. Che ti daremo, che per tutt’oggi ne presti queste vesti?
POL. Un par di scudi, e tra tanto mi dovete un pegno, che vaglia almen trenta scudi per le robe mie, che restano in poter vostro.
ARS. Che dubbiti, che non fuggiamo con le tue robe? Non conosci, che son gentiluomo, e Napoletano? Non è quella la casa mia?
POL. Io non dubbito d’un par vostro, ma l’arte nostra richiede così. Non vò far leggi nuovi all’arte.
ARS. Vi daremo domani tre scudi.
POL. Signor, non fate nulla, tornatemi le robe.
ARS. Io no ho altri danari, ne altro pegno, che questo rubino, che val cinquanta scudi.
POL. Datemelo in pegno.
ARS. Ma come staremo sicuri noi, che dandoti l’anello tu non fugga via?
POL. Ho moglie, e figlie in Napoli, e ho casa, e bottega, che voi la sapete, però ne postrete star sicurissimi.
ARS. Noi abbiamo ancora in Napoli tutto quello, che ai tu, e non ci ai voluto aver credito, perchè vuoi, che l’abbiamo a te?
POL. Non so, che dirvi, datemi i panni miei.
TRA. Padrone, considerate in lui: lo conosco molto tempo in Napoli. ed è uomo da bene, se gli può considar maggior cosa.
ARS. Orsù glielo confido sopra la tua parola.
POL. A Dio.
TRA. Già è accommodata la cosa a mio modo; e col suo debito tempo, penso, che ne nascerà l’effetto suo, ed un giuoco, che ne aremo a rider per sempre. E se nò, guai alla mia schiena. Voi andatevene a questo alloggiamento vicino, e vestitevi. Io andrò a casa del parasito a consegnargli le vesti, ed a vestirlo, ed informarlo meglio del negozio, e vo, che l’uscio è
aperto.
ARS. Ed io andrò ancora a vestirmi.

Atto III