INTERLOCUTORI

CALLIFRONE Vecchio
ARSENIO Suo figlio
FILESIA Spagnuola giovane
TRAPPOLA Servo
LUCRINO Ruffiano
FAGONE Parasito
GABRINA Sua moglie
POLEONE Venditore
DENTIFRANCOLO Servo del capitano
DRAGOLEONE Capitano
CUOCO
LEONELLO Servo del capitano
ELIONORA Vecchia, moglie di Califrone
La scena, dove si rappresenta la favola, è Napoli
 

ATTO PRIMO, SCENA i
CALLIFRONE vecchio, ed ARSENIO

CAL. Se mai l’obbedienza fece un figlio al suo padre ben caro, ed amorevole; or’, Arsenio figlioul mio, l’importanza e la necessità del fatto ti porgono assai largo campo di mostrar l’osservanzsa, e l’amor, che tu mi porti: poichè l’empito dell’ una e dell’altra mi sforza a valermi della tua obbedienza.
ARS. Callifrone mio caro padre, se in tutto il corso della mia vita avete ricevuto da me tutti quelli ufici di servitù, e di obbedienza, che da figlio amorevole si possono desiderare, ne apersi le labbra mai in contraddir al vostro imperio, perchè dissidandovi di comandarmi, usate con me si lungo prologo?
CAL. Ascolta prima l’importanza del negozio, e poi quello, che da te ricerco. Penso, che avrai più volte inteso da me, come per molte sicurtà, che feci quì in Napoli a diversi miei amici, fui forzato partirmene, ed andar in Barcelona; quivi presi stretta amistà con una donna Napoletana, chiamata Elionora, d’incorrotta onestà, e di bontà incomparabile, la quale era vedova d’uno D. Giovanni di Moncada, cavaliere Spagnuolo, che se l’avea tolta in Napoli per moglie, e se l’avea condotta seco on Barcelona, dove erano i suoi poderi, e le sue entrate. Avea egli d’un’altra moglie due bellissime figliuole, la prima era detta Donna Eufragia, la seconda Donna Elvira. Venne costui a morti, e la lascrò erede di ventimila ducati, acciocchè quando le figlie fossero di età, l’avesse maritate secondo il suo parere. Accadde, che per li molti miei travagli, e di corpo, e di animo, infermai in Barcelona: ella mi raccolse in sua casa, e mi governò con tanta carità, che conobbi certissimo aver ricevuto la sanità da Dio per mezzo delle sua orazioni, e digilenze nel governo. Restandole così obbligato, ed innamorato delle sue maniere, la chiesi per moglie: ella gradì la richiesta, e così ci sposammo insieme, e nel primo anno la feci madre di due maschi in un parto, l’uno de’quali se’tu, l’altro è Lelio. E volendo tornamene in Napoli, che tuttavia s’andavano rassettando le cose mie, condussi te, ch’eri più robsuto, meco; e lasciai Lelio con lei, ch’era più delicato. Ma però eravate tanto simili, che ne io, ne elle vi potevamo distinguere. Quando eravamo in Barcelona, consertammo più volte insieme dar le due sorelle a voi dui fratrelli, perchè essendo bambini v’amavate con tanto ardore, ch’era una cosa mirabile, oltre che ne io, ne tu madre, ne tutto il mondo insieme, v’abrebbe potuto elegger mogli, come quelle, nobili, belle, ricche, ed onestissime. Donna Eufragia è già maritata con Lelio, e se tu fossi stato in Barcelona, forse non sarebbe stata rubata, e saresti marito di Donna Elvira.
ARS. V’ho inteso dir questo almeno cinquanta volte.
CAL. Or avendo già districate le mie facultà da creditori, se ben più tardi assai, che non istimava, non son ito a torla io, ne ho mandato altri per lei, sperando, oggi mi parto io, domani mando per lei, son già passati quindeci anni, or la età mi da molta incomodità, ed innazi tempo mi dà i difetti del tempo: onde la promessa mi obbliga, che mandi te in Barcelona a condurla in Napoli, che molto desidera ripatriare; e son tanti anni, che mi sollecita, che se non mando tosto a torla, se ne verrà sola con Lelio. Conosco aver tanto torto, che la memoria ancor se ne vergogna, e non voglio più trattenerla. Onde tutte queste cose insieme, e ciascuna per se, mi sforzano a commandarti, che subito subito ti parti da Napoli per Barcelona a farle compagnia.
ARS. Padre, se ben le ragioni, che vi muovono a mandarmi, sono importanti, tuttavolta mi pare strana cosa, ch’essendo tardato quindeci anni a non far così fatto viaggio, or vogliate, ch’io vada così subito; e senza averne fatto mai alcuno, volete, ch’ora ne facci un così lungo. Io non vò in conto alcuno lasciar d’obbedirvi, ma vi chiedo un poco di tempo a pensarvi, ed a prepararmi prima le cose necessarie.
CAL. Io ben sapevo, che saresti stato prontissimo al viaggio, ma il lungo essordio, che ho teco fatto, è stato, acchiocche tu dovessi partir subito. L’amor, e l’osservanza d’un buon figlio comanda, che mai non debba replicare al padre, ma rimettere il tutto in suo potere, perchè sa più, che egli non sa; ne da veruno è amato, come dal padre, perchè il padre amò prima lui, ch’egli cominciasse ad amar se stesso; e che sempre vegghia, acciocchè il figlio dorma; s’affatica. acciocchè riposi; e risparmia, acciocchè rimanga ricco. Si parte una nave per Barcelona di Triffon Damiano mio amico, più giorni sono t’ho provveduto d’ogni commodità: onde non ai a far altro, che imbarcarti. Or m’ha fatto intendere, che ha il vento in poppa, ha salpate l’ancore, è uscita dal porto, ed ha spiegata le vele.
ARS. Non bisogna almeno una settimana, per licenziarmi da’parenti, e da gli amici?
CAL. Co’parenti, e con gli amici farò io l’uficio da tua parte, gli esporrò la necessità, e la fretta della partita.
ARS. Non vedete, che spira un Levante gagliardo, che è contrario al mio navigare?
CAL. Concosco le scuse, che non sai quello, che dici. Se Barcelona sta in Ponente, vi bisogna Levante per andarvi: anzi questo Levante, che spira, mi ti la dar tanta fretta.
ARS. Datemi almeno quattro giorni di tempo, e se non vagliono le mie ragioni appresso voi, almeno ci vagliano i preghi.
CAL. Io sono statto quello, che ho pregato primate; e fa conto, se non vagliano teco i miei preghi, che ne i tuoi valeranno meco. Io cerco il giusto, e però voglio, che vogli ubbidirmi. Il figlio, che vuol’essere il vero erede del padre, bisogna essergli obbediente; ed io mi vergognarei d’esser padre di un figio, che non volesse obbedermi. Tu non ai qui ufici, ne moglie, ne figliuoli, che non sia sempre apparecchiato a partirti. Non volendo ora partire, mi dai a credere, che sei qui trattenuto da qualche vano, e disonesto pensiero. Vergognati dunque di far quello, che riprenderesti in un’altro.
ARS. Io vi giuro, padre, per quella riverenza, che vi porto, che non mento. Certi amici mi han dato catene d’oro, gioje, e danari a servare: onde è forza, che mi diate un poco di tempo, acciocchè gli restituisca; altrimenti strimerebbono, che me ne fusse fuggito, per rubargliele.
CAL. Questo poco di tempo quante ore sono?
ARS. Tre, o quattr’ore.
CAL. In tre, o quattr’ore la nave potrà giongere a Gaeta, e non ti potrai più imbarcare.
ARS. Almeno due ore.
CAL. Così sia. Io andrò a scrivere una lettera a tua madre, poi me n’andrò al molo a far trattenere un poco la nave. Tu non far, che t’abbia ad aspettar molto.

ATTO PRIMO, SCENA ii
ARSENIO solo

Or quando mai ad un misero innamorato potè accadere così improvisa, e sventurata disavventura? Che avendo faticato tre anni, per liberar l’amata mia Filesia dalle mani d’un crudelissimo ruffiano, e già essendo su’l maneggio, per farmi il più miserabil’uomo, che viva, spinge mio padre a mandarmene in Ispagna? Non han valuto con lui le scuse, non i preghi, non gli scongiuri, per impetrarmi, non dicio qualche giorno, per avvezzarmi a vivere senza la miglior parte dell’anima mia, ma un’ora da potermi licenziare dal mio bene. Ahi padri, questi sono i dolci, ed amorevol’imperii, co’quali avete a reggere i figli vostro? Questo è l’amor paterno? Voi padri? Padri nò, ma crudeli avversari de’nostri desideri, manigoldi empi delle nostre gioje. O più tosto in quel giorno, che mi ponesti nella cuna, m’avessi posto nella bara. O più tosto, che ponermi nel bagno, m’avessi bagnato nel proprio sangue. Questo è’l premio della riverenza, che v’ho avuta sì lungo tempo? Veramente, come andate inanzi d’età, tornate a dietro di cervello. Ma io sto consumando il giorno in lamenti; e’l tempo se ne va, quando un’hora sola la comprerei con un’anno della mia vita. Andrò a chieder licenza. Ma con che saccia là comparirò dinanzi? Ho promesso riscattarla dal ruffiano, e torlami per moglie, ed or l’abbandono? Amante io? Anzi crudel nemico. La fiamma d’ amor verso me, diverrà fiamma di sdegno. Come soffrirò, veder que’lumi turbati, da’quali la mia vita prende il maggior sostegno? Vò andarmene in Ispagna; vò annegarmi, per non star con un padre così crudele; vò morire, accochiè mai più mi veda: ed è ben ragione, che lasciando quì in Napoli la mia vita non viva in altera parte: e così ne anco comparirò, dov’ella sia. Ahi che non mi comporta il cuore partirmi senza vederla: il gielo della morte mi fa sudar la frontè. O amore, come sei amaro. Ma pur vò battere. Tic toc.

ATTO PRIMO, SCENA iii
FILESA innamorata, ed ARSENIO

FIL. Arsenio, somma d’ogni mia gioja, e fin d’ogni mia speranza, che nuova mi apportate?
ARS. Oimè, anima mia. 80
FIL. Perchè date principio alle vostre parole con augurio così cattivo?
ARS. Oimè, cor mio, che non so dove incominciare.
FIL. Vita mea, come state così travagliato? Or non son’io la vostra Filesia? Quante volte m’avete detto, che veggendomi vi si tranquillava il cuore, e vi si raddolcivano gli affanni?
ARS. Chi crederebbe, anima mia, che dove prima nella vista de’vostri begli occhi trovavan requie tutte le mie passioni, or veggendoli m’accorano maggiormente? Con quanta gioja veniva l’altre volte a vedervi, con tanto or’amarisssimo tormento son venuto a visitarvi. In somma moriva, non veggendovi; or moro, perchè vi veggio.
FIL. Ben mio, se m’amate, non fate, ch’io stia più sospeta; parlate presto: uccidetemi in un tratto.
ARS. Il crudelissimo mio padre vuol, che orami parta per Ispagna, a far compagnia a mia madre, che vuol venirsene in Napoli. Non han bastato le scuse, non i preghi, non le ragioni ad impretrarmi tanto tempo appo lui di ridurlo a mutare il suo volere.
FIL. Ahi traditora fortuna, con qual più acerbo colpo potevi or uccidere tutte le mie speranze? O padre, che in un tempo, in un colpo uccidi due amanti insieme. Arsenio mio, che dolorosa nuova e quella, che voi mi date? O quanto contraria a quella, che sperava da voi udire. O quanto areste fatto meglio passarmi il cuore con un pugnale, che trafigermi con queste parole. Vi perdo a tempo, quando aveva, di voi maggior bisogno. Ecco una lettera, che manda il capitan Dragoleone, avvisando il ruffiano, che mi tiene per ischiva, come oggi manda il suo servo con cento scudi, per saldo di trecetdo, c’ ha ricevuti per lo mio prezzo, e con un segnale, che mi consegni a lui, acciocchè mi meni al capitano. Spiegaltela, ch’ivi vedrete spiegato quanto io vi dico.
ARS. Non posso leggere, ho perduta la luce de gli occhi: veggio il mondo in tenebre per me: mi gira la testa.
FIL. Mi prometteste in paga dell’amor mio donarmi in dono voi medesimo; ne io pensando, che voleste prendervi giuoco di mi, mi lasciai persuadere dalle lusinghe d’un gentiluomo di qualità, come voi sete; e smenticando il misero stato, dove viveva, m’era sollevata così in alto, che già mi stimava vostra sposa: onde rotto ogni freno al mio desidero, è devenuto l’amor così furioso, e violento, che non posso più ritrarmene. Ecco mi abbandonate, e mi lasciata cader dal cielo in un precipizio, dove ho il condegno gastigo della mia leggierezza, e resto condennata per vil mercantanza d’un ruffiano, e questo corpo negletta preda d’un vilipeso soldato. Ecco il premio del mio saldo amore, e della mia inviolabil fede. Come, avendo perduta l’onestà, sarò più degna di vita? O mie vane speranze, o vostre fallaci promesse, quanto tempo m’avete ingannata. Deh liberatemi, vi prego, da questo ruffiano, acciocchè la mia onestà non patisca alcun danno, ed io poi sia forzata ad uccedermi con le mie mani; e se i meriti dell’amor mio non son tali, che sia vostra sposa, almeno tenetemi per ischiava in casa vostra fin tanto, che s’avvisi mia madre per lo riscatto, cui rimborsiate il prezzo, che facendomi questo favore mi parrà d’aver ricevuto il guiderone del mio amore. Overo ponetimi in un monistero, acciocchè io serva a Dio,
che forse questi sono i suoi profondi misteri, che non abbia a locar tutto il mio amore, e le mie speranze in un’uomo, e spenda gli anni, che mi avanzano, nelservizio di colui, che m’ha salvata da tanti pericolo. E vi farò conosscere al fine, che non arete fatto favore ad una misera schiava, come vedete, ò puttana vil, come credete; ma ad una onoratissima gentildonna.
ARS. Vita mia, non voglio altro testimonio, che voi siate altamente nata, che i vostri nobilissimi costumi, e le vostre lodevoli maniere. E come può esser, che questo vostro sangue, spirito, e sembianza non abbiano gran nobiltà congiunta seco? E che voi siate onestissima, non altro che gli assalti, che ho continuamente dati con doni, preghi, lusinghe, e minaccie all’inespugnabil rocca della vostra onestà, che voi con tanta ostinata resistenza, e constantissimo animo avete valorosamente difesa. Queste due cose fur quelle, che con tanta violenza fer preda, e rapina del mio cuore. Ne bisogna rimpr’overarmi, che in tre anni non abbia voluto riscattarvi dal ruffiano: che vi giuro per quelli vostri occhi, riveriti da
me più di qualunque altro nume qui in terra, che ho patiti i maggior travagli d’animo, e di corpo, che possa sofferir uomo del mondo, per trovar i danari, così è malagevole ad un figlio di padre avaro trovar tre carlini, non che trecento scudi; e mi sarei venduto mille volte in galea, o in man di Turchi per avergli. Per non mi trafiggere più con queste parole, che moro doppiamente, e da voi, e dalla importunità di mio padre; e mi bastino le pene, e i dolore, che mi danno le vostre bellezze.
FIL. Chi può forzar la vostra voluntà a partirvi?
ARS. Mio padre, a cui è forza obbedire.
FIL. Siategli obbedente in ogni cosa, eccetto in questa.
ARS. Mi sforza. E se ben egli, mentre che fu giovane, fu innamoratatissimo; or, che è decrepito, non ricordandosi del tempo passato, è cosi rigido meco.
FIL. Voi vi partite, ne sapro mai più novella di voi, ne voi de me. Io me ne vò in Levante, voi in Ponente. Io perdendovoi, perdo me ancora insieme con voi; e restando sola, non ho ne voi, ne me stessa, ne so, se più mai impetrerò dalla mia ventura de rivedervi: questa è dunque l’ultima volta, che ci veggiamo. Orsù andante, ed imbarcatevi tosto, e passate il mare, che lo passerete molto agevolmente, poichè con tanta agevolezza passate il mare della lagrime mie. Non troverete pesce, mostro, o balena in esso, che non sia più pietoso di voi: non troverete scoglio, che non l’avanziate de rigidezza: non sarà mai tempesta così crudele, ed aspra, che voi non siate più crudele di lei: ne vedrete onde così mobili, che non avanzino di stabilità la vostra fede. E veramente amore è privo di amore verso voi. Perdonatemi, cor mio, se pur v’offendo, ch’io assalita da soverchia passione non sò quel’, che mi dica.
ARS. Vita mia, ho l’animo tanto travagliato, e così sepolto nell’abisso delle miserie, che non so, che rispondervi: pregovi, lo crediate, e se pur non volete crederlo a me, leggetelo ne gli occhi miei, o dimandatelo al cuor mio, che vive con voi, e rimarrà con voi. Io mi parto, e vò co’l corpo, dove mio padre comanda, perchè egli me lo diede: l’anima, che è mia, resta con voi, ne si partirà da voi mai per un sol punto. Onde io partendomi mi sparto in due parti, l’una farà un camino, e l’altra un’altro assai diverso; perciocchè il corpo anderà, e l’anima tornerà, e sarà tanto congionta con voi, quanto il corpo sarà disgionto. Voi restate sana, ed in pace; e faccia Iddio, che tante restino con voi felicitadi, ed allegrezze, quante meco vengono accompagnate amarissime passioni, e disperati pensieri.
FIL. Come posso io restare in pace, e sana, se voi sete la mia pace, e la mia salute? E voi partendo, con voi se ne viene ogni mia pace, ed ogni mia salute, e meco non resta se non una insopportabil guerra, ed una incurabile infermitade? Vivan l’altre donne contente, che godono di loro amori, ch’io essendo priva di voi, non arò ne pace, ne salute giammai.
ARS. Vi lascio un’anello, vi prego a custodirlo nelle vostre mani, acciocchè talor veggendolo, vi ricordate di chi sempre si ricordò di voi, e vi ha servito, ed amato col più sincero amore, e colla più salda fede, che sia stata amata, e servita donna giammai. Vi prego, in premio di tanto amore, non per questo mora nel petto vostro la memoria dell’amor mio, ma siatemi cortese d’una lagrima, o d’un sospiro. Voglio il fazzoletto vostro, perchè ha tocco le vostre belle labra; ma or cangiando fortuna, sarà solo ricetto delle mie amarissime lagrime, e nella morte si bagnerà del sangue del più disavventurato uomo, che viva sopra la terra. Questa vita m’era solo cara per voi: voi mancandomi, vò che mi manchi anch’ella, che troppo senza voi mi farebbe amara, ed angosciosa.
FIL. O Dio, posso sentir questo, e non morir?
ARS. Io vi lascoi, o mio bene, o mio male, o mia dolce pena, o mia amara vita: voi sete stata il mio primo amore, e voi l’ ultimo sarete: fra l’altre cose mi parto afflitto, e sconsolato, che lascio voi ancora sconsolata schiava in poter d’un’ empio ruffiano, che a me è salute il morir una volta, per non sentir mille volte il giorno gli estremi accidenti di morte. E se bene spero colla morte uscir d’affanni, tuttavolta dopo morte pur ho cagion di temere, che avendo il nostro amor fatto così salde radici nell’anima, che è immortale, dubito, che con la morte non siano ancora eterne le pene mie.
FIL. Poichè non ha piaciuto alla nostra sorte di farci marito, e moglie, non farà ella giammai, che non v’abbia a goder coll’animo, e col pensiero, e che non sia moglie alla vostra memoria, mentre sarò viva.
ARS. Anima mia, se prima ardeva, or avvampo; e quanto più dimoro con voi, cresce la doglia. Vò partirmi. O dolce bene dell’anima mia, vi domando l’ultima licenza: dammi gli ultimi baci, or more la speranza di non aver mai più a rivederci.
FIL
. O più d’ogni dolcezza dolcissima, abbracciami, l’anima mia s’è baciata con la tua nell’estremità della labra.
ARS. Sostegno della mia vita, che cosa è questa? Risvegliatevi, oimè, o Dio.

ATTO PRIMO, SCENA iv
TRAPPOLA servo, ARSENIO, e FILESIA

TRA. Padrone, che gridi, che rammaricamenti sono questi?
ARS. Non vedi, o Trappola, che ho morta in braccio la vita mia, ed in me pur vive la morte mia? O morte, come puoi dar morte a chi può dar vita ad altri? Se tu sei stata pietosa a lei, togliendola d’impaccio, perchè sei così crudele a me, facendomi sopravivere a tanto dolore? Ai acquistato titolo di crudele, uccidendo lei: acquistalo or di pietosa, uccidendo me ancora. Oimè, ella è tutta raffreddata, et tuttavia le manca nel cuore il calore; e par, che con questo suo morire m’inviti alla morte.
TRA. Non vi disperate, padrone, tiratele i peli, che così sogliono ravvivarsi le donne.
ARS. Ma poichè la mia vita vive in te, e tu sei morta, perchè non moro anch’io? Perchè vivo? Che bene arò in questa vita? Deh perchè non sono io Pelidano, che svenandomi per tutto, spargessi il mio sangue soura il vostro corpo, acciocchè voi resuscistate, ed io morto rimanessi.
TRA. Voi sostenete la morta in bracchio, ed avete più bisogno di sostegno di lei; ed io sostengo in un tempo duo, l’una morta, e l’altro più morto, che vivo.
ARS. O corpo, come ai lasciato così bell’anima partir da te? O anima, come ai lasciato così bel corpo? O sol, perchè non t’oscuri, essendo chiusi quegli occhi, onde tu divenivi più lucido, e più spendente. Che cosa mostrerà la tua luce più di bello al mondo, poichè in lei e spenta ogni bellezza? Oimè, tu ricevi i mei baci, e non me li rendi, e pur un tempo me gli raddoppiavi. Ancor morta sono dolci i baci nella sua bocca. O fiato, che odoravi nell’anima sua divina. Ahi quanto care mi sono costate le poche dolcezze, che ho avunte teco. Risvegliati, anima mia.
TRA. Già par, che respira.
ARS. Già par, che ritornino i spiriti vitali a gli ufici loro. O sommo Dio, dacci l’aita tua. Rispondi, cor mio.
FIL. Deh lasciami morire; e lascia, ce con morte finiscano gli affanni miei.
ARS. Vivi, vita mia, ch’assai se tu più degna di vivere, che non son’ io.
FIL. Mi manca la voce, che già facca la strada all’anima, che volea uscire.
TRA. O Filesia, gran cordoglio n’avete dato, n’avete mosso a compassione; ed il padrone poco mancò, che non morisse per la pietà della vostra morte.
FIL. Crudel pietà è questa, che ave avuto di me. O morte più cara, e più giojosa d’ogni vita: se fossi morta così abbracciata con lui, l’aurei comprata con mille vite.
ARS. Sì, se ancor io fossi morto così abbracciato con te, che avendoci abbruciato un fuoco, infiammati un’amore, stretti una fede, così ancora ci avesse uccisi una medesima morte.
TRA. Or sete vivi ambidue, di che più vi dolete?
FIL. Io? D’esser viva.
ARS. Io? D’esser nato. Ma sei ben tu crudo; che non piangi in tal caso.
TRA. Orsù non più rammarichi. Comincisi a ridere.
ARS. Rider io? Trappola, così t’affliggi delle miserie, che m’affliggono; e de’travagli, che mi travagliano?
TRA. Io ho più bisogno di consorto, ce voi; ma rido, per far rider voi; che se piango ancor’io, faremo un mortorio in terzo. Ma di che piangete?
ARS. Mio padre vuol adesso, che mi parta per Ispagna, ed oggi il capitano Dragoleone mana per la mia Filesia. Ecco la lettera, che le manda.
TRA. E di questo vi dolete?
ARS. Ma di che coasa io posso più dolermi, che perdendo lei, perdo tutto il ben, c’ho nel mondo? E quanto mi trovo più incatenato d’amore, tanto più provo d’ogni speranza.
TRA. Mi avete punto, il cuore di tanta compassione, che non la potrei esprimere.
ARS. Se avessi pictà di me, mi daresti un poco di veleno, per avvelenarmi; e d’una mortal gratia, te ne arei gratia immortale.
TRA. State di buona voglia, che farò, che voi non anderete in Ispagna, che voi non sarete piu schiava del ruffiano: oggi vi porrò l’un all’altro in braccio.
ARS. E ti darebbe l’animo de ajutarci?
TRA. E di che sorte. Par, che il Cielo mi spiri, che speri, che vitorrò di travaglio tutti.
ARS. O Dio, che rispondessero gli effetti alle tue parole. Trappola, tu pur sei stato bersaglio sempre delle mie speranze; e tristo me, se le ritrovasse fallite appresso te.
FIL. Io non crederò più mai a così liete speranze, ne con volontario inganno ingannerò più me stessa. Mondo, speranze, a Dio: io vi dò da me perpetuo bando.
ARS. Cuor mio; non vogliate avvilirvi in questa speranza: speriamo in Dio.
TRA. Usar trappole, e fizioni son opere mie usate, opere natie; e se ve l’ho promesso molte volte, è stato tiepidamente. Ma se mai fui Trappola, ci voglio esser oggi da dovero.

ATTO PRIMO, SCENA v
LUCRINO ruffiano, ARSENIO, e TRAPPOLA

LUC. Che fai, Filesia, in mezzo la strada con gl’innamorati, eh?
ARS. Ed ai tanto ardir, furfantissimo, di batterla in mia presenza.
LUC. Chi sei tu? Che ai a far con me, o con lei? Che io teco? Mi vuoi tu vietar, che non batta le schiave mie?
ARS. E mi condanna il mio… che veda un’atto così villano, e discortese, e lo sopporti? E non gli passi questa spada per lo cuore?
LUC. Tu sei molto infratellito con costei, ed io l’ho vietata, che non tratti con alcuno, ne comparisca su l’uscio. Mi vien voglia di ucciderla di bastonate.
ARS. O che scortese riposta!
LUC. O che importuna proposta!
ARS. Trappola, mira che alterezza.
TRA. Degna d’esser abbastata con un buon carico di legna.
LUC. Ganimeduzzo, io non ho bisogno di sfaccendati, che mi vengano a civettar le finestre: ci vuol’ altro, che berrette impiumate, e pavoneggiar intorno la casa. Danari, denari quando no ai, lascia di far l’amore.
TRA. Sempre sitibondo di danari, e di sangue umano non conobbe ne pietà, ne umanità giammai: all’ora è più pietoso, quando è piu lontano d’ogni pietade: all’or gli pare di far un sacrificio a Dio, quando assassina qualche pover’uomo. La somma virtù in lui è la somma d’ogna furfanteria.
ARS. Non ha un pelo sul capo, o nella barba, che non l’accusi per un traditore, e sensa fede: e non so, come gli sieno restati quel naso, e quelle orecchie, che non gli sieno state tagliate, e quel viso sfregiato mille volte.
TRA. E’stato dieci anni in galea per moneta falsa, quattro volte in berlina per ladronecci, cinque volte con la lingua inchiodata per bestemmie, e sette volte scopato per traditore.
LUC. Cinque volte non più, diciate il vero. Ma toltene queste disgratie, che mi sono accadute, non si può togliere, che non sia uomo da bene: posso andar per tutto con la fronte scoverta.
ARS. E per compimeno di tante virtù sei ruffiano.
LUC. Io nacqu al mondo ne filosofo, ne medico, ma ruffiano; ma son la corona, e’l triofo di tutto il mestiere.
TRA. Quanto dice, parla, pensa, e traffica, tutto è menzogna: inganna chi piu si fida in lui: odia il giusto, e non ha fede: queste sono l’arti sue.
LUC. Son tristo eh? Ho danari. Voi, che sete cosi uomini da bene, mostratemi un cavaluccio, e siccatemelo ne gli occhi.
ARS. Sempre ha la casa piena d’uomini tristi, e con quelli solo conversa.
LUC. E’ vero, perchè i buoni sono tristi per me; e i tristi son buoni, perchè mi apportano guadagno.
ARS. Orsù finiamola. Lucrino, due parole.
LUC. Non presterei mezza orecchia per mezza parole.
ARS. Ascolta.
LUC. Son sordo.
ARS. Gridero forte.
LUC. Non sento il parla forte; bisogna parlar con le mani, e voce argentina.
TRA. Parlategli, padron, con le mani, che questa medicina suol far sentire i sordi.
LUC. Dico, bisogna parlar con danari in mano, e voi non avete se non parole.
ARS. N’arò, e ben presto.
LUC. Allor ti udirò.
ARS. Credemi, che sarà così.
LUC. E se lo credessi, che meriterei?
ARS. D’essere stimato uomo da bene.
LUC. D’esser abbruciato.
ARS. Perche?
LUC. Sarei come l’eretico, che crede il falso.
TRA. Credilo a me, che sarà così.
LUC. Che? Non ho voluto credere al tuo padrone, e lo vò credere a te?
TRA. Per questa fede.
LUC. Che fede avesti tu mai? Dove la coniscesti? Tu non ai fede alla stesse Fede.
TRA. Credi almeno, che oggi Filesi sarà la nostra.
LUC. Or questo? Sì, che non può essere, nè con danari, nè senza.
TRA. Perchè con danari?
LUC. Perchè l’ho venduta, ed ho avuto i danari. Chi ha speso, ha preso.
TRA. Fa quel, che vuoi, che non ti vò credere.
LUC. Fa quel, che vuoi, che non voglio esser creduto da te.
TRA. La tua arte è il mentire.
LUC. Credimi questa volta, che dico la verità da vero ruffiano.
TRA. Se non sei diverso da quel, che sei stato sempre. Ma noi l’aremo, e senza danari.
LUC. Egli non l’arà, solamente per non far piacere a te.
TRA. Così sarà, e te non avviso prima. Io mi chiamo Trappolla, e farò, che al nome sortirà l’effetto.
LUC. Poco t’estimo: ho, dove si fiuta a meloni.
TRA. E te lo dico, e ridiculo, acciocchè ti guardi da me.
LUC. Or questa sarebbe più bella, che avendo.
TRA. Ascolta bene, ruffiano, acciocchè non dicessi, che parlo in generale: ti dico, che t’ingannerò, e poco ti faro valere le tue ruffianesche astuzie, anzi ti avviserò nel fatto stesso, quando ti burlerò: te l’ho detto, e te lo ritorno a dir da capo.
LUC. Cacami addosso, fammi il peggio che sai. Ma se non mi sarai nulla?
TRA. Diventa boja, ed appiccami.
LUC. Me ne vò, che mi rincresce intendere le tue baje.
TRA. Dunque i fatti miei son baje?
LUC. Bene, perchè tu proprio lo conosci.
TRA. Ascolta.
LUC. Vatt’ inforna: ho da fare.
TRA. Più ti daro da far’ io.
ARS. Quando dirai a me, che ascolti, dirò ancor’io, c’ho da fare. Mira grandezza! Non si degna di rispondere: se n’ entra, come se fusse qualche gran Bassà, il Sciriffo di Persia, il Vaivoda di Transilvania, il Pretejanni dell’ Arabia, ed il Bellerbei della Grecia.
TRA. Mi rodo, mi struggo di voglia, immaginando con che machine possa espugnarlo, ed ingannarlo: e quelle sue parole mi sono state tutte stimoli pungentissimi al petto.
ARS. Abbi pietà di me, contro di cui il Padre, il ruffiano, e la sorte si son congiurati per distruggermi. Tu sei il mio gran maestro, tu fosti il principio di questo amore, tu il mezzano, così ancora conducilo insino al fine, che ho fede co’l tu ingegno superar ogni difficultade.
TRA. Spera in questo busto. Farò cose dell’altro mondo. Fa contro, che presto ti porrò in suo grembo.
ARS. Fa conto, che mi porresti nel grembo della felicitade. Ma dimmi, come rimediarai a questo ruffiano?
TRA. Con uno impiastro.
ARS. Come impiastro? Mi dai la baja.
TRA. Dico il vero. Prima torrò tutte le ladrerie, furberie, tradimenti, che siano stati al mondo: le bolliro in una caldaia, e ne caverò la schiuma: questa la mescolerò con olio d’inganni, fredi, e trappole, ci aggiugnerò quinteessenze, di scopati, di condennati in galea, e d’impiccati: poi ne farò confezione col sugo del mio cervello, e di tutte queste cose ne farò una
pittima per lo cor del ruffiano, che le aggirerà tanto il cervello, e lo porrà in tanta confusione, che avrà a grado concederti Filesia.
ARS. Ma se lo volevi ingannare, a che proposito avvisarlo prima?
TRA. L’averlo avvisato sarà d’ajuto a doppiamente ingannarlo: perchè penserà, che se voleva ingannarlo, non l’ avvisava. Poi maggior sarà la gloria delle mie trappole, maggiore il suo dolore e vituperio, e sarà dolce pastura e riso della
cittade.
ARS. Io me ne vò al molo, dove mi aspetta mio padre. Trappola, in te spero, in te ho locato le mie speranze, nelle tue mani sta la morte e la vita mia, da te solo attendo soccorso: caro mio Trappola, non mi mancare.
TRA. Mancando a voi, mancherei a me stesso. Ma ecco vostro padre, fuggite, scampate, che non vi vegga meco. Egli mi sta mirando con occhi torbidi, e traversi.

ATTO PRIMO, SCENA vi
CALIFRONE, e TRAPPOLA

CAL. Trappola, Trappola, ti ho veduto si: non bisogna nascondersi, nò.
TRA. Eccomi, padroni, eccomi.
CAL. Sien date grazie Dio, che Arsenio se ne va in Ispagna, ed io uscirò di sospetto da tuoi ladronecci, e furfanterie. Pensavi, ribaldone, ch’io fussi così trascurato, che non mi accorgessi, che in tutti questi tre anni mi avete dato l’assalto ordinaro alla casa, impegnando, e vendendo le robe, ch’io ci ho introdotte con tanto sudore, per far danari, e dare al ruffiano: e di tutte le ribalderie, tu sei stato l’architetto, il maestro delle astuzie, delle trappole, e tu l’esecutore? E pensavi, ch’io non sapessi, che tramate aver trecento scudi per riscattar la puttana; che di più ai fatto prommetere di torla per moglie? Partito che sarà Arsenio da Napoli, toccherà a me di rivedere i conti, e saldargli insieme. E se ben tu sei un degno suggetto di corona, e di essere sollevato in alto, pur io ti farò re d’una isoletta di legno, che sta in mare; e ti porrò uno scettro in mano di quaranta palmi non senza gli ornamenti delle catene al collo, e di cerchi a’ piedi, e con cento nervate d’entrata il giorno, con patto che se mai te ne torrò fin che morrai, io sia posto in tuo luogo; e dopo morto, ti farò balsamar la tua pelle di paglia, come si fa a’Satrapi, ed a i re d’India; e ti porrò sovra la stalla, acciocchè sia esemplo a tutti gli schiavi fraudolenti pari tuoi, che verranno in casa a servirmi. Poichè quel povero, e sconsigliato mio figlio, di cui non era il più gentil giovane in Napoli, sotto la tua disciplina è divenuto il peggior puttaniero, e sfacciato di questa terra, tanto che non si parla d’altro, che di lui.
TRA. Padrone, io dirò poche parole in mia difesa. Ch’io sia ladro, ed assassino, lo confesso, perchè sono schiavo: che se privaste uno schiavo di tutti gli assassini, e furfanterie, non sarà più schiavo, ma un’altra cosa. Ma che v’abbi rubato in casa, voi stesso sete a voi stesso buon testimonio della guardia, con che custodite le robble vostre, la qual’è tanta, che un topo non potrebbe rodervi un acino di grano; e se lo rode, ben sapete i rumori, che si fanno in casa; e ben sapete le spie, che tenete alle mani di vostro figlio, come se fosse il maggior ladro del mondo. Che vostro figlio sia innamorato d’una puttana, io non gli sono nè tutore, nè pedante, che l’abbia a consigliare, ch’ami, o disami; e se ben amasse una puttana, che cosa è, è cosa da giovane: non sapete, che togliendo la puttana dalla gioventù, tutto si risolve in zero? Ma perchè il buon servire, che vi ho fatto insino adesso, non mi ha potuto acquistar grazia appresto voi, anzi mi rimproverate molte cose, di che io non sono consapevole. Ed a questo tempo bisogna esser tristo, per esser tenuto buono dal padrone: ed io in questa servitù non mi conosco aver fallato mai, se non l’aver servito troppo bene: e mi ponete in disperazione; io un giorno farò,
basta.
CAL. Che farai? Vien quà: che farai furfante?
TRA. Farò, che vostro figlio non anderà in Ispagna.
CAL. Tu ladro furfante?
TRA. Io sì. E vi ruberò trecento ducati, come dite.
CAL. Ed ai ancor animo di dirmelo in su gli occhi?
TRA. Ne, no, anzi farò, che voi stesso me gli diate con le mani vostre; anzi mi pregherete, che li riceva, per riscattar la sua puttana.
CAL. Ribaldo, maigoldo?
TRA. Anzi farò di più, che la torrà per moglie, ei che la vi meni a casa, e che le facciate molte carezze.
CAL. Io torrò a casa mia una puttana, che arà scambiato cento bordelli, per mia nuora? E che l’abbia ad accarezzare?
TRA. E di queste buone opere non solo me ne abbiate a dar la mancia, ma la libertà; e che non abbiate più a trattarmi, come un vilissimo schiavo, ma con molta riputazione, come conviene ad un par mio.
CAL. O iniquo, e cattivissimo più di tutti gli uomini.
TRA. E se fra tutt’oggi non farò questo effetto, allor da mia voglia me ne andrò a quella isoletta, che voi dite per colonello, e governator perpetuo. Avvertite bene a quello, che vi ho detto, e che non vi esca di mente.
CAL. Su, su, finiamola.
TRA. E farò, che voi stesso siate il giudice delle mie azioni; nè mi curero, che ne siate giudice, e parte.
CAL. Sta sicuro, che la ti fatò soverchia; e vedren o se il callo della tua schiena sarà più duro de i frassini, degli olmi, e de’ nervi di toro.
TRA. Io l’apello per adesso da voi, che sete in rabbia, a voi medesimo, per quando starete quieto.
CAL. Su vattene con tosto passo alla villa, e di al castaldo, che porti dimane i conti da rivedere, e non tornar quì fin’ a sera.
TRA. Andrò volentieri, ed il vostro Trappola vi sarà così obbediente in questo, come in tutto l’altro, e mi parto or ora.
CAL. Va, che ti possi rompere le bracchia, le gambe, il collo insino alle budella, puzza, e sentina di tutte le magagne, e trappolerie del mondo. Andrò al molo, farò imbarcar mio figlio; nè mi partirò di là, se la nave non sarà posta in viaggio.

Atto II